Caribe # 01

La sera guardo fuori dalla finestra, in camera da letto. E’ una finestra dalle dimensioni ridotte, quadrata, cinquanta centimetri di lato, attraversata da tre sbarre. E’ parzialmente coperta dai rami e dalle folte foglie di un albero che cresce nel cortile di un vicino, ma ciò non impedisce di vedere il mondo che sta fuori. In lontananza, oltre uno spazio vuoto che pare un cantiere non attivo, c’è un palazzo costruito solo a metà. La struttura sembra completa: ci sono i piani, le scale, il tetto, ma giace aperta, come un animale sezionato. Non ci sono finestre, né porte, né tantomeno corrimani, ma qualcuno ci vive. Scorgo una donna, dei bambini che corrono nelle stanze nude, vuote. Sono occupanti abusivi. Il clima li aiuta, non fa mai freddo e anche se piove poi torna il sole, un sole caldo. Sono poche le zone della città senza spazi occupati. Di solito sono angoli abbandonati: sottoponti, parcheggi inutilizzati, palazzi fatiscenti da tempo in disuso. Questo è così nuovo da non essere nemmeno finito, quindi è particolarmente prezioso. C’è un uomo che fa la guardia all’ingresso, una fessura ricavata a forza tra le lamiere che circondano l’area. Ha in mano una pistola. Da chi si sta proteggendo? Se la puntasse nella direzione della mia finestra avrei paura. Nessuno mi ha mai puntato una pistola. In fondo quanti metri ci dividono? Cinquanta? Sessanta? Così, però, osservandolo da una certa distanza, dietro una piccola finestra con le sbarre per metà coperta dai rami di un albero, mi sento perqualchestranaragione al sicuro. E’ come un pezzo di teatro, e io sono l’unico spettatore. Ma basterebbe che l’uomo si accorgesse di essere osservato e il protagonista diverrei io. I nostri ruoli sono, come dire, intercambiabili.