Mario Balotelli, un italiano

Il calcio offre sempre occasioni di distrazione e di riflessione. Sui giornali italiani online leggo delle imprese di un giovane calciatore a me fino ad oggi sconosciuto, Mario Balotelli. E’ l’eroe della partita Juventus-Inter, vinta dall’Inter grazie ai due gol di questo diciottenne nato a Palermo ma residente a Brescia dall’età di due anni. Cosa c’è di strano? Di fenomeni o presunti tali l’industria calcistica ne sforna uno a settimana. Però Mario Balotelli è nero. Nulla di eccezionale in questo: di neri che hanno indossato la maglia della nazionale negli sport più diversi la lista è ormai piuttosto lunga, come racconta nel suo libro “Black Italians” Mauro Valeri. Ciò che mi fa riflettere è che Mario Balotelli non è italiano, pur essendo nato in Italia e ad aver vissuto praticamente tutta la sua vita con una famiglia italiana. Eppure Kakà è italiano. Come Recoba, Batistuta, Cafù, Veron. E molti altri calciatori più o meno famosi a cui è stato concesso il passaporto in tempi brevissimi per vie spesso illegali (come dimostrato da alcune inchieste della Magistratura, vedi qui).

Ecco alcune note tratte dal sito http://www.mariobalotelli.it

“Resta il problema della cittadinanza di Mario: causa cavilli giuridici, ancora oggi inspiegabilmente irrisolti, il suo affido tramite Tribunale dei Minori di Brescia alla famiglia Balotelli tarda a trasformarsi in una adozione. Mario è vittima di un’anomalia: la sua cittadinanza non è ancora quella italiana, nonostante sia nato in Italia e vi abbia sempre vissuto. Questa ‘anomalia’ è fonte di problemi per le squadre estere interessate.”.

Forse, come spesso accade in Italia, i meriti sportivi di Balotelli faciliteranno le pratiche per l’acquisizione della cittadinanza, però il suo caso potrebbe anche essere una nuova occasione per sollecitare il parlamento a mettere mano alle norme sulla cittadinanza. Nelle commissioni parlamentari giacciono da tempo diverse proposte di revisione. Ok, il parlamento ora è in ginocchio e chissà quando ci sarà nuovamente una maggioranza interessata a questo tema, decisivo per la piena inclusione delle seconde generazioni. Dovremo quindi continuare a veder concesso il passaporto a giovani (non calciatori) argentini, venezuelani e di altri paesi, discendenti di italiani, il cui unico interesse è avere il “passaporto europeo” e con l’Italia non hanno alcun rapporto mentre viene negato a ragazzi “di origine straniera” che nascono e crescono nella penisola….è un non senso.

Libro digitale: supplizio letterario o suggestivo futuro?

Battesimato troppo presto a mia insaputa, ho purtroppo ereditato il sottile piacere tutto cattolico per il supplizio. Non ho mai portato il cilicio, quello no, però un giorno ho deciso di leggere un romanzo online. E’ successo alcuni anni fa e il libro mi è pure piaciuto (era Asce di guerra di Wu Ming, prima della sua ristampa da Einaudi). Quelle serate al computer – un normale computer portatile, non un avvenieristico PDA – mi sono costate almeno due diottrie e prima o poi chiederò i danni al collettivo bolognese (!). Un’esperienza da non ripetere. Tuttavia, c’è qualcosa di interessante nel libro digitale: il fatto che non si capisce bene che cosa sia e dove possa portare. Insomma, è un mondo affascinante. L’ho capito meglio grazie al progetto letterario Estrangeiros (http://www.foreigners.com.br), a cui sto partecipando da circa due mesi. Qui non si tratta di scrivere una storia compiuta e di caricarla in rete, dove chiunque può scaricarla e leggersela con calma oppure stamparla (se possiede una copisteria o ha rubato un furgone carico di toner). No, la storia si scrive via via, esponendo in rete tutti i passi verso il finale.

Il “gioco” ideato dalla scrittrice brasiliana Daniela Abade è entrato nel terzo mese di vita e si cominciano a delineare delle dinamiche particolari. Dei sette partecipanti, alcuni sono partiti a forte velocità disseminando interventi (post) a scadenza quasi quotidiana: brevi flash, alcune frasi, messaggi spezzati. Altri, tra cui io, intimoriti dal mezzo, hanno scelto la via dei passi lenti e cadenzati. Qualcuno ha preso di petto la questione, e forse memore dei feuillettons ottocentesci ha preso ad inserire interi capitoli a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Da qui a novembre la strada è lunga e può succedere di tutto. Io procedo a vista, certe settimane non riesco a trovare il tempo per pensarci, altre non vedo l’ora di passare un’oretta dalle parti di Città del Messico per distrarmi un po’. Vedremo.

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Ognuno per sé e Dio contro tutti

Mi sono sempre chiesto perché Werner Herzog abbia intitolato così il suo film sulla storia di Kaspar Hauser (l’originale tedesco era “Kaspar Hauser. Jeder fuer sich und Gott gegen alle”). Non ho fatto ricerche in merito, mi tengo la curiosità e la fantasia che ne consegue, ma quel titolo mi è rimasto impresso e mi è tornato in mente leggendo delle ultime imprese che vedono protagonista il pastore tedesco (alias il papa bavarese). Mi sembra un motto adeguato ai tempi che viviamo.

I sacchetti per l’acqua e il torrente rosso

Tempo fa un amico africano, che da circa quindici anni vive in Italia, mi ha parlato di un suo progetto imprenditoriale. Con la crisi strutturale che ha colpito il settore della piccola e media impresa nel nord-est italiano, negli ultimi anni molti immigrati hanno perso il lavoro o si sono trovati in condizioni precarie. Ne conosco personalmente alcuni che hanno ripreso la valigia in mano e sono partiti per altri luoghi o hanno fatto rientro nel paese di origine, con destini il più delle volte imprevedibili. Statistiche ufficiali per queste casistiche non ce ne sono ma i numeri potrebbero sorprenderci.

Il mio amico non è uno di questi, ma è comunque inquieto e vorrebbe far fruttare nel suo paese quello che ha appreso negli anni di emigrazione. In Italia sta bene, dice, ma non si sa mai cosa può succedere, coi tempi che corrono. La sua idea è semplice: vorrebbe acquistare una macchina per impacchettare l’acqua, che verrebbe poi rivenduta in sacchetti da un litro. Mi ha spiegato che con 5mila euro si può comprare una macchina cinese che fa questo tipo di lavoro. Basta collegarsi ad una fonte e il gioco è fatto. Poi si caricano le buste su di un camion e si fa il giro dei villaggi dove non c’è acqua corrente. Secondo lui l’affare è sicuro, e il capitale da investire limitato. Gli ho chiesto come farebbe ad ottenere l’autorizzazione per spillare l’acqua ma mi ha detto che non c’è problema, non mi ha chiarito perché. Il mio dubbio più serio è però riferito ai sacchetti. Che fine fanno i sacchetti di cellophane una volta svuotati? Gli ho raccontato dei paesaggi inquietanti che ho visto nelle periferie di centri grandi e piccoli del sud del mondo – in Uganda, in Marocco, in Malesia, perfino in Patagonia: relitti di sacchetti di plastica aggrappati ai rami degli alberi, agli arbusti, ai fiori. Plastica portata dal vento anche dove l’uomo non vive, lontano dalle sue case. Indistruttibile, resistente più di chi l’ha creata e di chi l’ha usata. Che fine faranno i sacchetti dell’acqua?, ho chiesto. Mi ha guardato sorpreso, non è che non ci avesse pensato ma gli sembrava un problema secondario. “Se ne deve occupare il governo”, mi ha detto. Ha ragione, il suo ragionamento è logico.

Difficilmente riuscirà a portare avanti questo progetto, ma condividendolo con me cercava di convincersi che ce la potrebbe fare. La mia coscienza – presuntamente – politicamente corretta ed ecologista vorrebbe dissuaderlo dal continuare su questa strada, ma ho preferito fermarmi all’esposizione di alcuni dubbi. In fondo, che ne so io del suo paese, dove non sono mai stato?

Ho trascorso la seconda parte della mia infanzia e tutta l’adolescenza in un paesino del Friuli. Poco distante da casa c’era un torrente meta di escursioni in bicicletta piene di affascinazione. Nemmeno nei cartoni animati giapponesi si poteva vedere un torrente rosso. Ma anche blu. E viola. Giallo. Arancio. E molti altri colori ancora. Più volte a settimana il torrente cambiava colore, a seconda delle tinte che il colorificio lì accanto utilizzava per tingere la lana. L’acqua usata per lavare la lana veniva scaricata direttamente nel torrente. Per noi bambini, o almeno per me, era uno spettacolo spiazzante e affascinante come pochi altri. Non osavo chiedere agli adulti perché l’acqua avesse tutti quei colori. Nessun adulto, d’altra parte, si degnava di spiegarmelo. La fabbrica dava lavoro a molte famiglie. Con i soldi guadagnati in fabbrica molti hanno costruito la casa, risparmiato per comprare l’auto per poi cambiarla appena non piaceva più, hanno fatto figli che hanno comprato altre auto e costruito ancora nuove case. E via così, alla ricerca della vita possibile, della felicità.

Dialoghi sopra la cittadinanza

Due donne sui 45 anni, si conoscono da anni. Una è tedesca, berlinese doc, l’altra italiana ma vive da vent’anni a Berlino. Conversano del più e del meno in un piccolo gruppo di persone. Qualcuno tocca en passant il tema della cittadinanza, l’italiana commenta che le farebbe piacere acquisire quella tedesca, visto che la legge italiana permette la doppia cittadinanza. Metà della sua vita l’ha trascorsa in Germania e, dice, si sente a casa qui quanto in Italia. La donna tedesca è sorpresa, la sua espressione non nasconde nulla: è semplicemente basita. “Tu? Ma perché?”. “Cosa c’è di strano? Vivo qua da vent’anni”. Assorbito il colpo, il tono della donna tedesca si fa più leggero. “Ma sei sicura che te la diano?!”, dice sul filo dello scherzo. “Perché? Non sono mai finita in prigione!”, risponde l’altra sorridendo.

L’aneddoto è vero. Al di là del tono assunto sul finale dalla conversazione, il problema che sottende è tutt’altro che leggero. A cosa è legata l’appartenenza ad uno stato, cioè la cittadinanza? In molte persone – in Italia come in Germania e altri paesi – anche acculturate, laureate, metropolitane, presuntamente cosmopolite, viene automatico collegare la “cittadinanza” con la radice etnico-nazionale del paese. “Tu, uno dei nostri? Ma no, non è possibile”, pensano queste persone. E’ un’opinione che magari cercano di trattenersi dall’esprimere in pubblico, ma come le cose che dal cuor vengono ogni tanto saltano fuori comunque, inaspettatamente. In un mondo dove la mobilità delle persone è un tratto inprescidibile, volenti o nolenti le politiche criminalizzanti od escludenti degli stati, le regole di definzione della cittadinanza non possono rimanere ferme a 50 anni fa. Il problema è che le leggi prima o poi magari cambiano, ma le teste delle persone, quanto ci vuole per cambiarle? Vari intellettuali hanno ragionato negli ultimi anni attorno a questi temi, mi piace ricordare la chiarezza di Saskia Sassen, che ha sottolinenato come la cittadinanza dovrebbe essere fondata sulla partecipazione più che sull’origine. In linea ideale sarebbe bello pensare un mondo senza carte di soggiorno, visti, passaporti, documenti di riconoscimento, ma è possibile? Stretti addosso ad un’esistente olioso e incatturabile viene ormai difficile anche sognare. Però non costa nulla. E almeno aiuta a guardare il presente con meno angoscia.