Il generale nero: una storia italiana

Layout 1

Mauro Valeri continua la sua personale preziosa ‘missione’ di scandagliare ed esporre alla luce la grandemente ignorata storia dell’Italia multietnica e multirazziale. Dopo aver raccontato la vita di Leone Jacovacci, pugile meticcio degli anni venti e trenta dello scorso secolo, del partigiano Alessandro Sinigaglia, figlio di un afro-americana e di un italiano, e del calciatore Mario Balotelli, nel suo ultimo libro Valeri si dedica ad una storia individuale che esplora gli eventi della prima guerra mondiale e del fascismo da un prospettiva originale. Come il camminatore al margine cantato dai Fugazi, Valeri si posiziona ai margini della scena per coglierne con più chiarezza gli eventi. Il ‘margine’, in questo caso, è il ruolo degli afro-italiani nei primi decenni della Repubblica e in particolare nella prima guerra mondiale. Domenico Mondelli, il protagonista del volume edito da Odradek (Il generale nero. Domenico Mondelli: bersagliere, aviere e ardito, 2015) può vantare diversi importanti primati, ma dubito che tra i lettori ci sia qualcuno che ne sia al corrente. A scuola nessuno ci ha parlato del primo, e unico, generale di corpo d’armata nero. O del primo aviere nero nella storia dell’aviazione  militare mondiale. Un nero italiano. La scuola, questa fucina di omogeneità e immaginario unificante al soldo del mito nazionale, non ha tempo per esperienze discordanti dallo spartito ufficiale. Lo stesso si può dire dei mezzi di comunicazione popolari: la televisione, il cinema, la letteratura. Eppure Domenico Mondelli, come Leone Jacovacci, è portatore di una storia che incarna le caratteristiche di eccezionalità e di originalità che fanno di una storia una storia avvincente. Fino ad ora, tuttavia, nessuno ne ha parlato.

Continua a leggere

Raff BB. 1965-2016

raffaele-bb-lazzara

Raff, una sera in pizzeria tirai fuori il mio quadernetto più piccolo di una mano e lessi una storia che avevo scritto durante le prove degli Inzirli. Mi annoiavo perché gli altri provavano e riprovavano pezzi incompleti e io non avevo voce in capitolo. Così mi misi a scrivere delle storie con protagonisti bambini ribelli e inguaribilmente antiautoritari. Quella sera in pizzeria avevo bevuto, ma basta poco per dirmi ‘bevuto’, due birre o tre bicchieri di vino già mi rendono la vita leggera e la parola fluida. Non so quanto avevo bevuto, ma ricordo che lessi una storiella, e poi un’altra e poi un’altra ancora. Non so chi mi stesse ad ascoltare, forse le leggevo a me stesso per nascondere la vergogna di essere ubriaco (ho sempre qualcosa di cui vergognarmi). Però tu ascoltavi, mi stavi ascoltando. Mi chiedesti se ne avevo scritte delle altre, di storie. Io sorrisi. Erano storie strampalate che parlavano di bambini che volevano i capelli lunghi o mangiare sempre gelati e solo gelati o che chiedevano al parroco a dottrina come faceva ad essere vergine la maria, la madonna per intendersi, se era la madre del cristo, del gesù o come lo volete chiamare. Come poteva essere vergine maria?, si chiedeva uno di quei bambini. A chi potevano interessare quelle storie, che scrivevo solo per tenermi compagnia e pensarmi meno solo? A te interessavano e mi chiedesti di fare delle fotocopie. Fotocopie. Io trascrissi al computer quelle storie e te le diedi. Tu le portasti via e dopo qualche tempo mi chiesero di fare un libro. Ne scrissi delle altre e alfine mi ritrovai con il libro in mano, I bambini terribili. Un libro vero. Un libro che tu hai visto per primo, anzi solo tu hai visto, perché io vedevo altro, un quaderno, un piccolo quaderno sgualcito, e basta.

Negli anni ci siamo avvicinati e poi ci siamo allontanati. Una sera, una sera in cui tu avevi bevuto, avevi bevuto tu, mi trattasti male, mi facesti del male. Avevi bevuto, ma eri sincero, l’alcol ci fa ancora più sinceri di quanto noi anime sincere possiamo essere. Mi facesti del male e non capii perché. Eri ubriaco, mi dicesti. Ma va così la vita che rimaniamo con risposte incompiute e parole monche. Io so che ci rincontreremo e ti racconterò altre storie. E forse capirò. O forse no. Che importa. Che importa capire, al fondo. Io sono uno scrittore e mi basta un solo lettore per essere contento. Uno solo. Grazie per aver letto i bambini terribili.

John Stabb R.I.P.

Un registrazione video scassata fatta in un piccolo centro sociale occupato. Immagini sfocate, suoni che vanno e vengono, corpi che fluttuano. Immagini grezze come delle piccole pietre trovate in un terreno discosto e rivelatesi estremamente preziose. Sono concerti come questi, allo stesso tempo ai margini e al centro delle scene musicali e dell’aggregazione controculturale, che hanno prodotto quel sentimento di appartenenza con cui siamo cresciuti. Sul palco un gruppo che per alcuni ha scritto pagine memorabili della storia del punk, i Government Issue. Al centro del palco, col microfono in mano, un lungagnone dai capelli lunghi, John Stabb. E’ questa l’immagine che voglio conservare di lui, che se ne é andato a 54 anni dopo una troppo breve resistenza al cancro. Nei dieci anni di esistenza dei G.I. Stabb è rimasto l’unico membro fisso. E’ riuscito a creare musica che travalicava i generi, e scompaginava le categorie, senza spostarsi dall’ambiente culturale che lo aveva spinto su quella strada. Come altri della scena punk, purtroppo, è stato ucciso anche dal sistema sanitario USA, che offre poco o nulla a chi possiede poco.