Casa è dove ricarichi il telefono

Cranbassil street è una via mediamente lunga e mediamente trafficata che sta poco lontano da qui (dal posto dove sto scrivendo queste righe). Nei primi anni del ‘900 era conosciuta come la “Piccola Gerusalemme” perché era il centro della comunità ebraica di Dublino, creatasi in seguito all’arrivo di alcune famiglie di ebrei lituani in fuga dai pogrom, negli anni ’70 dell’800. Oggi Cranbassil street ospita un buon numero di esercizi commerciali “etnici”: alimentari halal, fast food cinesi, alimentari pakistani, phone center. Ci sono pure due moschee, nella zona. La comunità ebraica nel frattempo si è praticamente estinta e a serbarne memoria c’è solo un piccolo e bizzarro museo. Qualcuno si è chiesto qual è il senso di appartenenza di chi vive in questa via, possibile topos dei cambiamenti che attraversano e hanno attraversato la città. Ha pensato, anzi, di chiederlo ai bambini e rendere quindi pubbliche le loro risposte trascrivendole sui marciapiedi. E’ nato così The Home Project, Il progetto casa, un percorso educativo e un’installazione artistica. Le frasi dei bambini sono, come spesso accade, sorprendenti. Ne è un esempio quella che dà il titolo al post che state leggendo. Ovviamente, non potevano essere ignorate da un cortile digitale come questo.

Ricordo di Wess, ‘Black Italian’ del pop

WessDoriGhezzi

Ogni tanto mi vengono in mente ancora idee da giornalista. Qualche tempo fa mi ero chiesto quale sarebbe stato il pensiero di Wess Johnson rispetto all’Italia di oggi. Wess era il partner di Dori Ghezzi in un duo canoro molto popolare negli anni della mia infanzia, un periodo dominato dai Ricchi e Poveri, Peppino di Capri, i Santa Esmeralda e ogni altra amenità che si poteva ascoltare alla radio nel bar “Al Gufo”, gestito dai miei appena rientrati dalla Svizzera. Il cantante nero e la cantante bianca e bionda colpivano la mia curiosità di bambino, soprattutto perché cantavano in italiano e non in inglese. Il duo canoro multietnico nell’Italia delle lotte sociali, dei movimenti studenteschi. Cosa rappresentava? Cosa voleva dire? Probabilmente nulla, era solo un escamotage dell’industria musicale tesa a sfruttare il fascino delle voci nere, del black soul, ad uso del pubblico italico. L’italiano medio di allora era probabilmente più attrezzato di quello di oggi (o forse solo più ingenuo, anche se Pasolini pensava lo fosse ormai troppo poco) a vivere le diversità, basti pensare allo stile del primo Renato Zero: chi avrebbe il coraggio di quel Renato Zero oggigiorno, in un’Italia segnata da razzismo vociante, omofobia e localismo becero?  Wess non è stato, in quegli anni, l’unico cantante nero a cimentarsi con la lingua di Dante, ma è quello che ha colpito maggiormente la mia immaginazione. La notizia della sua morte mi ha sorpreso, proprio perché l’avevo pensato e avrei voluto sapere qualcosa di più di su di lui. E’ morto negli Usa, suo paese di origine, anche se si era stabilito in Italia dagli anni sessanta. Un video dei primi settanta mi trasmette delle emozioni che esulano dal fatto puramente musicale.

E’ arrivato il libro

Si intitola La bici sopra Berlino (Ediciclo, collana Ciclopolis, Euro 12), sarà nelle librerie dalla prossima settimana. 

Dalla quarta di copertina:

In quale città è possibile invitare un angelo a un viaggio in bicicletta se non a Berlino? Qui gli angeli sono di casa e forse il loro sguardo può aiutarci a capire la metropoli bambina, che si inventa sempre nuove identità per stupire il viaggiatore. Ma incontrare il nostro angelo non è facile. Cosa lo attrae nel mondo di oggi? Su cosa si posa il suo sguardo? Procedendo per tentativi ci si imbatte negli appassionati del Muro che vanno a cercarne le tracce in bicicletta. Si incontrano trapezisti senza circo, dj lavapiatti, meccanici part time, fioristi amanti di Julio Iglesias e perfino gli ultimi dinosauri di Berlino, che vivono ritirati in periferia e non fanno più paura a nessuno. Un viaggio che intreccia realtà e invenzione, ironia e irrequietezza, inseguendo i luoghi e i loro fantasmi.

Nei prossimi giorni sarò in Italia per alcune presentazioni: al Festival della letteratura di viaggio di Mandas (Cagliari), a Genova presso la libreria Finisterre, a Torino presso la biblioteca “I. Calvino”, a Milano alla Stazione delle biciclette di S. Donato Milanese. I dettagli del mini- tour un po’ funambolico (4 voli – Ryanair -, 4 treni, 4 bus) sul sito di Ediciclo, www.ediciclo.it

Il destino di un nome

A cosa serve il nome? A riconoscerci o ad identificarci? Il mio viene spesso confuso o malinteso (continuo e ricevere email che iniziano con “Ciao Mauro” o “Caro Mauro”), quindi sono abbastanza abituato a sentirmi spodestato della mia di per sè già fragile unicità. Da quando ho cominciato il fieldwork per la mia ricerca ho, tuttavia, imparato a fare i conti con la completa aleatorietà del nome. Per la squadra di calcio che sto seguendo, i giocatori, gli allenatori e i responsabili, sono Maximo, pronunciato con l’accento sulla i (non so il perché di questo, visto che all’anagrafe sono un affannoso Massimiliano, e da sempre, per tutti, Max). Ma alcuni giorni fa una bambina che circola attorno al campo da calcio, che in realtà è area aperta a mezza via tra il parco giochi di quartiere e un’area verde non troppo manutenuta, mi ha apostrofato con un imprevedibile “Melvin”. Melvin. Tu sei Melvin, ha urlato correndomi intorno. Il primo pensiero è stato: bene, almeno esisto. E’ un pensiero da etnografo, da osservatore con presunzioni di investigazione sociologica. Però è vero. Melvin, mi son detto, vabbé. Le ho chiesto – urlando perché nel frattempo era corsa non so dove: perché Melvin? Chi è Melvin? Non mi ha risposto, o meglio ha ribadito solo: Melvin, tu sei Melvin. Ho chiesto ad alcuni dei ragazzi del gruppo chi fosse quella bambina, se fosse sorella di qualcuno. No, è solo una che vive lì vicino. E’ pieno di bambini qui attorno, e il campo da calcio li attrae come il miele le api. Il club ha undici squadre giovanili, di cui due femminili, quindi ce n’è un po’ per tutti.

Tornato a casa ho scandagliato internet alla ricerca di un possibile Melvin della tv o dei cartoni animati, ma è nei videogiochi che forse ho trovato quello che cercavo. In Grand Theft Auto c’è un personaggio che si chiama Melvin, porta gli occhiali con la montatura nera e la barba. Tutto qua. Per il resto è nero, grosso e porta un cappellino coi bordi rivoltati, quindi c’entra come i cavoli a merenda con me, ma non essendoci altri Melvin in circolazione mi piace pensare che la bambina abbia visto questo gioco, magari giocato da un fratello più grande e le sia rimasto impresso il personaggio al punto da affibbiarne il nome al primo tipo un po’ anomalo che le è capitato intorno. E’ probabile sia una mia fantasia, d’altra parte la bambina non si è vista in giro da quella volta così  non ho potuto chiederglielo. Per tutti sono continuato ad essere Maximo. E mi sta bene così. E’ appropriato al ruolo di outsider che mi trovo a rivestire.

Perché amo Billy Childish (si fa per dire)

Nel 1990 o 1991, pubblicando (oddio, erano fotocopie, tante a dire il vero) la prima uscita della mia fanzine Sacrabolt citavo tra le ispirazioni Billy Childish. Uno dice, serve ispirazione per pubblicare un giornale autogestito? Certo. Se non fosse per persone come Billy Childish non mi sarei mai messo a cantare in un gruppo punk o a scrivere articoli, poesie, racconti, a scrivere inchieste per i giornali e infine libri di vario genere e ispirazione. Non mi sarei nemmeno immerso in una esperienza complessa come quella di esplorare l’universo degli adolescenti di oggi, con particolare attenzione all’incontro tra diverse origini etniche e culturali, e di farlo in un paese straniero. Non l’avrei fatto semplicemente perché crescendo in un paese di provincia, in una famiglia senza titoli di studio e senza reti parentali o amicali che potessero sostenere scelte di questo tipo, sarebbe stato impensabile. Sarò sempre grato a Billy Childish (come a Guy Picciotto, Bob Mould ed alcuni altri) per avermi detto: non devi chiedere il permesso a nessuno, se hai l’urgenza di farlo, se senti che devi dire qualcosa, fallo. Purtroppo, o per fortuna, il mondo funziona a compartimenti, e le voci che sfuggono ad etichette e “scuole”, sono ridotte al margine, snobbate dalla massa o considerate con sufficienza perché poco prevedibili. Con tutte le conseguenze che questo comporta.

All’età di 50 anni Billy Childish, dopo aver pubblicato credo più di 50 dischi, creato e sciolto forse una decina o più di gruppi (ogni volta che il gruppo entra nel circuito della fama lui lo scioglie), aver pubblicato libri di poesie e racconti e dipinto quadri, copertine, manifesti per tre decenni, viene “scoperto” dall’informazione di massa, almeno in Gran Bretagna. Succede. Un anno fa avevo letto, con sorpresa, un articolo dell’Independent che segnalava Childish come l’artista più sottovalutato del Regno Unito. Oggi trovo nel sito del Guardian una lunga intervista che rende finalmente merito al lavoro del nostro. E’ un ritratto onesto e chiaro di quello che Childish va dicendo da anni. “Ciò che è inusuale in me è che faccio molte cose e non sono mediate, non chiedo il permesso a nessuno”. (Gran parte dei dischi e dei libri di Billy sono pubblicati dalla sua etichetta Hangman). E’ una scelta coraggiosa e difficile. Ha funzionato in tutti questi anni grazie al seguito underground che Childish ha raccolto. Una comunità transnazionale, non grande, ma sufficiente a consentirgli di continuare. Non è detto che valga sempre ed ovunque allo stesso modo, ma lui è un esempio luminoso che può funzionare. A proposito dell’affascinazione per il punk, nel 1977: “Il fatto è che quelli come noi, ragazzi di provincia (Childish è originario del Kent), credettero nella bugia, ed è per questo che è successo: perché credevamo nella bugia”. Sul suo essere considerato o volersi considerare, un amatore: “Essere un amatore significa fare qualcosa per la passione di farlo. Certo, io non sono un amatore, ma è un modo per avere una leggerezza nel tocco nel descrivere te stesso. Gli amatori sono quelli che producono il vero progresso, le svolte, sono degli eroi, ed è molto meglio essere un eroe che un professionista (ride)!”.