Il dito, questo sconosciuto

Tempo addietro avevo raccontato di un dito trovato in strada e di quello che ne era seguito. Era una storia inventata ma più d’uno l’aveva creduta vera. Ci fu perfino chi mi scrisse per raccontarmi esperienze vissute di dita mozzate. Insomma, quel racconto aveva fatto nascere un piccolo circuito splatter tra amici.  Alcuni giorni fa una conoscente che lavora come psicologa in un centro per le tossicodipendenze nella periferia di Dublino (la droga è un problema serio nella verde Irlanda, in particolare nella sua poco verde capitale) mi ha riferito un episodio accadutole sul lavoro,  nelle scorse settimane.

Un pomeriggio  un poliziotto entra nel centro e si rivolge alla psicologa di turno – la mia conoscente – mostrandole un piccolo involucro. L’involucro conteneva un dito, un dito mozzato trovato nei pressi del centro. Il poliziotto voleva sapere se qualcuno dei frequentatori del centro si era presentato – ehm – con un dito in meno.  Insomma, l’assunto del diligente poliziotto era che il dito doveva essere di uno dei tossici che si recano al centro per la dose di metadone o per una siringa pulita. Chi altri potrebbe perdere un dito e per di più lasciarlo in terra?, aveva pensato il nostro. Il suo ragionamento non faceva una grinza, ma l’allibita psicologa aveva dovuto rispondere che no, nessuno dei tanti utenti (alcune centinaia) le sembrava essere privo di un dito. Però poteva anche non averci fatto caso, magari uno aveva la mano fasciata e chi va a pensare che ha perso un dito e proprio quel dito è lì a pochi metri di distanza, abbandonato, dimenticato da tutti. Il poliziotto se n’era andato sconsolato, non prima di aver chiesto alla psicologa di tenere gli occhi aperti: se fosse capitato qualcuno con un dito in meno avrebbe dovuto avvisare  la polizia! Da allora, però, ancora nessuno ha reclamato il dito.

Attenti all’autobus!

Una delle prime cose che mi hanno colpito di Dublino è la dimensione delle corsie ciclabili. Forse che i ciclisti cittadini sono tutti filiformi individui senza borse a tracolla?, mi sono chiesto. Oppure si tratta di corsie esclusive per l’infanzia e la prima adolescenza? Ma va, ribatte il buonsensista che aleggia (conflittualmente) anche in me: le strade sono strette e le corsie si adeguano alla situazione. E poi, meglio corsie strette che niente corsie, no? Capisco. Però. Però c’è una cosa che anche il buonsensista non può controbattere. Le corsie ciclabili sono molto spesso occupate da auto e furgoni in sosta! Per averne conferma basta dare un’occhiata alla foto scattata dal fotoreporter che è in me (hey, siamo una piccola squadra qua dentro, litigiosa ma pur sempre una squadra) il giorno di Natale. Eh vabbé, il giorno di Natale, ribatte il buonsensista, cosa vuoi pretendere? Lo sai che gli irlandesi sono gente rilassata e durante le feste se la prendono comoda. Eh no, insisto, Natale sarà un giorno speciale ma la situazione si ripete in misure diverse anche gli altri giorni dell’anno. Ho dei testimoni che possono confermarlo.

Lasciamo il me-buonsensista e il me-rompipalle (coadidiuvato dal me-fotoreporter) alla loro discussione e veniamo al punto: come si presenta Dublino al ciclocittadino straniero? Va detto che arrivando da Berlino mi ero abituato abbastanza bene, però lo schock è stato comunque forte. Prima di tutto, e qui chiedo la massima comprensione al lettore, va detto che la gente si muove in senso contrario. Le auto, gli autobus, e perfino le biciclette e i pedoni, procedono sulla sinistra invece che sulla destra! Come potrò abituarmi a questo? Uno degli altri me (l’appassionato di statistiche stradali) mi ha fatto presente che questa è la prassi in quasi tutti i luoghi un tempo colonizzati dalla Corona Britannica e perfino in Giappone. Niente di strano, quindi. Però farci l’abitudine sarà difficile, almeno per il me che attualmente è al governo dei tanti me. A questo si aggiunge una considerazione che si raccoglie sovente conversando con la gente: andare in bici a Dublino può essere rischioso. Di solito quelli che lo dicono non vanno in bici, ma capita spesso di vedere autobus e auto sfiorare i ciclisti come fossero componenti mobili dei marciapiedi.

Pur di fronte a questi problemi il numero delle persone che utilizzano la bicicletta a Dublino è (fortunatamente) in crescendo. Lo dicono quelli di Dublin Cycle Campaign, la principale associazione per la promozione dell’uso della bici. Attualmente circa il quattro per cento degli spostamenti quotidiani avviene in bici (una delle percentuali più basse tra le capitali europee) e l’obiettivo del Governo è arrivare al 10 per cento entro il 2020. Per non dire che nelle alte sfere sono insensibili alla questione, soprattutto in tempi di dolorosa recessione, va ricordato che recentemente è stata approvata una legge che finanzia l’acquisto di biciclette, eliminando il costo delle tasse (che può incidere fino al 20 per cento del prezzo finale). Potrebbe essere la volta buona che cambio bici anche io, ma temo sia una legge riservata ai cittadini irlandesi. Mi informerò. Intanto a gennaio porterò su la mia vecchia Marin.

Questo articolo è stato scritto per Ilikebike.org (cliccate sulla link per arrivarci direttamente)

Cosa fare a Natale (se non si va in chiesa)

Ho chiesto ad alcune persone di diversa origine come trascorrono il Natale. S., un collega sikh che porta sempre il turbante (segno di un’identità piuttosto robusta), mi ha detto che questa data non ha alcun senso nella sua religione, ma visto che è un evento  così pervadente nel mondo occidentale lui e gli altri membri della comunità sikh di Dublino il 25 dicembre si riuniranno al tempio e discuteranno delle diversità religiose. Il Natale è pressante soprattutto per i bambini, che al di là delle idee e scelte dei genitori sono bombardati dall’immaginario made by coca cola (babbo natale biancorosso, albero, neve, renne ecc) e chiedono una sola cosa: regali! Anche i bimbi sikh, in un modo o nell’altro, mi dice S., hanno di questi pensieri.

I., una ragazza giapano-brasiliana, discendente di quella singolare esperienza di emigrazione giapponese in Brasile della prima metà del ‘900, mi ha raccontato che il Natale non è una cosa sentita nella sua famiglia, nessuno va in chiesa quel giorno, però la giornata è diventata un’occasione per ritrovarsi con gli amici più vicini, per lei con i compagni di università.

H., un ragazzo originario dello Zimbabwe, trasferitosi con la famiglia in Irlanda sei anni fa, mi ha segnalato il modo più simpatico per trascorrere la giornata festiva del 25. Una partita a calcio con gli amici! In realtà, molti rifugiati e immigrati – soprattutto africani – si troveranno in un parco cittadino e la partita sarà il momento clou della giornata. Il bello è che H. mi ha invitato alla ‘festa’. “Che numero di piedi hai?”, mi ha chiesto. “Ti procuriamo un paio di scarpe da calcio”, ha aggiunto. Sembrava una battuta, ma le scarpe le ha trovate veramente, me lo ha confermato con un sms poco fa. Bus e treni il 25 dicembre non girano, tutto è fermo in questo paese soprendente (non aggiungo altro), ma H. ha trovato una soluzione: passerà a predermi in auto con un amico.

La tv della paura

Lo confesso, avevo accolto con un certo piacere la notizia che nell’appartamento c’era la tv con annesso dvd player. Ero stanco di vedere i film sul computer. Certo, in questo ultimo anno e mezzo ho avuto conferma che della tv si può fare felicemente a meno, pur cosciente che in un paese nuovo la tv può essere un (problematico) bignami delle abitudini locali. E poi, se avessi avuto la tv durante gli europei di calcio avrei risparmiato in birre e rumori di folla; ogni volta ache c’era una partita che mi interessava dovevo uscire di casa e cercare un posto negli affollati bar di Berlino. Capitava di fare delle esperienze socio-culturali speciali – per esempio le partite della Turchia viste in un bar del quartiere più ‘turco’ della città è stato qualcosa che difficilmente dimenticherò – ma non sempre era così.

Da persona curiosa avevo accolto con simpatia la presenza della tv soprattutto perché oltre ai due o tre canali pubblici irlandesi c’era la possibilità di vedere la BBC. Wow, la BBC. E poi Sky (Buuu) e Discovery Channel (Mah) e altri ancora. Insomma, mi dicevo, adesso potrei anche trascorrere del tempo a rincoglionirmi di immagini televisive. In fondo, dopo la barbarie catodica italica confidavo nello ‘stile anglosassone’.

Mai speranza fu così mal riposta. Ok, la cattolica morale irlandese e la politically correctness Britannica (o quello che è) limitano la presenza di culi e tette, quindi per ascoltare una notizia agricola non devi chiederti cosa c’entra la gonna corta e la scollatura della presentatrice. Quello no. Ma i programmi sono tremendi. Noia pura. O fastidio distillato. L’apice – drammatico, va subito detto – l’ho toccato collocandomi su Sky. Su questo canale viene proposto un programma che avrei preferito non sapere esistesse. Si chiama Uk Border Force. Spero che pochi ne abbiano sentito parlare, perché vorrebbe dire che il danno che produce è ancora limitato. Si tratta di un reality sulla polizia delle frontiere (in senso lato, in pratica è quella che in Svizzera si chiama Polizia dello straniero, Fremdenpolizei). Già questo suona male. In pratica, i poliziotti filmano quello che fanno agli immigrati: inquisire, perquisire, intimidire. I ‘soggetti’ destinatari della loro attenzione hanno in comune il fatto di avere la pelle scura, di sembrare arabi o essere neri. Non importa la loro nazionalità o provenienza, basta che incarnino agli occhi della forza pubblica il moderno nemico globale dell’occidente.

Di solito viene documentato il lavoro negli aeroporti ma nella puntata che mi è capitato di vedere i ‘poliziattori’ visitavano una ditta dove viene confezionata carne. Non è un macello, le carni arrivano già morte e, come in una catena di montaggio, gli operai le sezionano e imbustano. C’erano circa venti persone al lavoro, tutti apparentemente stranieri. La telecamera filma i visi impauriti degli operai. I poliziotti li fanno allineare addossati al muro e chiedono – ben attenti a non coprire l’inquadratura – da che paese vengono. Una voce spiega che l’obiettivo della visita è individuare possibili immigrati irregolari . A parte l’ovvia considerazione che se anche ci fossero immigrati irregolari dovrebbero interrogare e mettere alla gogna il padrone della ditta e non le vittime.. a parte questo, uno si chiede se la ‘privacy’ esiste e per chi, eventualmente. Vabbè. La stessa voce diventa una faccia, quella del ‘conduttore’ della simpatica visita. E’ un poliziotto dalla testa tonda e pingue che mentre sullo sfondo i suoi colleghi continuano e interrogare spiega che ci sono varie tecniche per carpire le cose. Lui adotta quella del ‘buon amico’. Ci mostra come si fa. Avvicina sorridente un paio di operai, apparentemente arabi, e si mette a conversare del più e del meno, facendosi passare per quello ‘buono’, il poliziotto umano che capisce il disagio che le persone stanno passando. E’ solo una tecnica, non è veramente buono, ce l’ha detto lui stesso, ma gli operai non lo sanno. Poi ci illustra gli esiti della visita: nessun immigrato irregolare occupato in questa ditta. Grazie. Grazie al c., verrebbe da dire con un francesismo! Però lo spettatore (bianco, convintamente britannico e probabilmente votante Laburista) viene rassicurato che sì, la polizia ci protegge dai ‘pericoli dell’immigrazione’ e che gli immigrati sono ben sorvegliati.

P.S. Pare che la serie tv sia stata finanziata dal governo britannico con una spesa di 400.000 sterline. Visto che le cose brutte non vengono mai sole, il reality di Sky ha un precedente: la serie Border Patrol, prodotta dalla tv neozelandese.


Bluff

Il mio amico G. dice che non c’è via d’uscita. Al giorno d’oggi la gente ti rispetta se hai  la faccia di bronzo (o di c….). Più balle racconti, e meglio le sai raccontare, e meglio sarai ricevuto dalla società. Vivere di bluff. Ok, leggendo questo i più visualizzerano il padre della presidentessa della Mondadori e del presidente di Mediaset e diranno: ‘hai scoperto l’acqua calda’. Non è (proprio) così. E’ una tendenza diffusa, che prescinde  dagli orientamenti politici, religiosi, ideologici o sessuali. La gente ti rispetta per quello che sai mostrare, a nessuno importa quello che sei veramente o quello che sai fare.

Le parole di G., disoccupato dopo una vita da operaio, mi risuonano spesso in mente, a qualsiasi latitudine mi trovi. G. è una persona generosa, semplicemente umana. Mi chiedo – e questo blog era nato per questo – se negli anni del post-tutto è possibile vivere rispettando la verità senza morir di fame? Chiedendomi questo mi guardo indietro e mi pare di vedere un panorama meno fosco, ma probabilmente allora – venti anni fa più o meno – avevo un altro paio d’occhiali oppure il cielo aveva un tipo di foschia che non sapevo distinguere.

Chi di hamburger ferisce…

Sul primo (e unico) settimanale multiculturale irlandese, Metro Eireann, leggo un’intervista con un imprenditore di origine iraniana, arricchitosi grazie alla gestione in franchising di alcuni MacDonald’s a Dublino. Qui andrebbe aperta una parentesi sui temi della comunicazione da/per gli immigrati nei diversi paesi: in Italia, in Germania e altrove, quando si scrive o parla di immigrazione è quasi blasfemo dire che molti ‘immigrati’ hanno come principale interesse quello di fare soldi, di arricchirsi sfruttando le opportunità che il capitale illusivamente offre. Di solito i temi – in positivo – riguardano la bellezza della ‘multiculturalità’, la valorizzazione delle ‘diversità’, il pluralismo religioso. In negativo, ci sono i fatti di cronaca, manipolati a piacimento (del padrone della testata). Dei soldi si parla poco. Nella piccola Irlanda del capitalismo spiccio l’attitudine dei media specializzati è diversa. Lascio la parentesi ad un’altra occasione e vengo al punto. L’imprenditore sfoggia gongolante dei dati che dicono molto sulla cultura alimentare – e non solo – del paese: “MacDonald’s serve ogni giorno in Irlanda più di 150.000 persone”. L’Irlanda (la Repubblica d’Irlanda) ha circa 4.400.00 di abitanti, quindi si può dire che circa il 3.5 per cento della popolazione mangia quotidianamente nella più grande fabbrica di obesità al mondo.

Prendiamo per probabile che l’imprenditore abbia – come è frequente nel business – gonfiato le cifre, e mettiamo anche che alla popolazione censita vada aggiunta una cifra non calcolabile di turisti, studenti stranieri e persone a vario titolo presenti sul territorio che comunque rientrano tra i clienti di MacDonalds. Pur tenendo presenti queste variabili, il dato rimane impressionante. A distanza di pochi giorni mi cade l’occhio su di un articolo dell’Irish Times intitolato “Obesità, attenzione alta”. Citando l’ultimo Rapporto sulle abitudini alimentari della popolazione irlandese si dice che due terzi degli irlandesi sono sovrappeso, mentre il 23 per cento è obeso. Basta girare per le strade per avere conferma diretta di queste percentuali. Tutto questo mi è tornato in mente alcune sere fa conversando con la nostra compagna di casa, una ragazza laureata che lavora come assistente di un deputato. Vedendoci cucinare ha commentato: “Io in cucina non so fare niente!”.  Per noi è una fortuna, perché vuol dire che la cucina è sempre libera, ma questa uscita – rappresentativa della giovine Irlanda, grande frequentatrice di fast food – mi ha offerto altri spunti di riflessione su questo singolare paese che nel bel mezzo della recessione si trova ad affrontare anche un poco divertente scandalo per la carne di maiale tossica.