Ai mondiali, in bicicletta

Mentre i mondiali (maschili) di calcio stanno per cominciare in Sud Africa, e quelli del 2014 sono stati affidati al Brasile, già si discute a chi affidare quelli del 2018. La candidatura congiunta di Olanda e Belgio si segnala da subito per l’originalità. L’idea avanzata alla Fifa è di avere i primi mondiali di calcio “in bicicletta”. I componenti del comitato promotore, del quale fanno parte leggende quali Crujiff e Gullit, si sono presentati alla sede della Fifa in bicicletta per annunciare che, nel caso il mondiale venisse affidato ai due paesi, la bicicletta verrebbe valorizzata come mezzo di trasporto principale per tifosi e personale impegnato negli stadi (non si dice delle autorità, ma chissà…). Nelle giornate delle partite la circolazione delle auto verrà chiusa e verranno messe a disposizione dei visitatori e tifosi due milioni di biciclette. “Da noi la gente va allo stadio in bicicletta, perché non possono farlo anche gli ospiti stranieri?”, è il messaggio di olandesi e belgi.  Le torme di auto-trasportatori di birra provenienti dalle isole anglosassoni e affini, che di solito danno il “meglio” di sé nei grandi eventi calcistici, potrebbero fare un’esperienza educativa. Spero che la cosa vada in porto, se non altro per il messaggio ciclo-amichevole che lancia. E poi, con tutti i problemi che il Belgio sta attraversando – da tre anni non c’è un governo e la convivenza fiamminghi-valloni pare sempre più difficile – potrebbe essere un segnale rasserenante, o almeno distraente.

I want the moon

All’improvviso, in primavera. Così è spuntato un nuovo disco dei Leatherface, inatteso come un vecchio compagno di studi scomparso negli anni post-università. Dopo un periodo di silenzio il poeta punk più irriducibile di questa parte dell’emisfero si rifà vivo con un disco all’altezza dei suo fasti passati. Frankie Stubbs è ormai entrato nei 50 ma non ha perso un’oncia della sua originale combinazione di ruvidezza e dolcezza. Ascolto consigliato per quelli belli dentro.

Forature

Quattro forature in un mese, un record. A ben poco da lamentarsi la Guinness che la recessione ha portato una contrazione nella vendita di birra e affini, marciapiedi e margini delle strade ospitano tappeti di vetri come fosse un perenne week end insonne. Alla prossima foratura chiedo i danni.

Fassbinder e gli Husker Du

Nel 1982 Wim Wenders, durante il festival di Cannes, chiese ad alcuni amici e colleghi registi di chiudersi in una stanza di albergo e dire la loro sul futuro del cinema. L‘idea era un po’ balorda, ne converrete, e infatti il documentario che ne uscì, intitolato con grande sforzo di fantasia “Room 666”, è noia pura. A parte un episodio. L’intervento di Rainer Werner Fassbinder. Mentre gli altri registi – tra cui Godard, Herzog, Spielberg, Antonioni – prendevano la palla al balzo per raccontare quella dell’orso e costruire castelli di parole, e per fare questo si prendevano del lunghissimo tempo, Fassbinder rimase nella stanza pochi minuti. Nemmeno il tempo di finire la sigaretta ed aveva già consegnato ai posteri la sua riflessione. Non è tanto quello che disse ad avermi colpito, ma il modo in cui era vestito. Camicia a quadri, giacchetta smanicata da pescatore, jeans a zampa di elefante e scarpe lucide e strette. Messo accanto agli altri sembrava essere capitato da un altro mondo. O da un altro decennio. Poi ho capito. In verità Fassbinder  era il quarto componente mancato degli Husker Du. Non c’è dubbio su questo. Basta osservare le fotografie dei tre di Minneapolis, che in quell’anno davano alle stampe il loro primo album “Land speed record”. Hanno lo stesso stile/anti-stile, trasmettono lo stesso senso di spiazzamento rispetto all’epoca in cui vivevano, segnata da una pressante attenzione all’abbigliamento come codice distintivo e soprattutto identificativo (e in questo l’operazione “punk” di Malcom MacLaren ebbe un forte influsso). Fassbinder morì nel giugno dello stesso anno, mentre gli Husker Du erano in studio per registrare “Everything falls apart”. Visto le circostanze della sua morte, il titolo dell’album suona tristemente profetico.