Raff BB. 1965-2016

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Raff, una sera in pizzeria tirai fuori il mio quadernetto più piccolo di una mano e lessi una storia che avevo scritto durante le prove degli Inzirli. Mi annoiavo perché gli altri provavano e riprovavano pezzi incompleti e io non avevo voce in capitolo. Così mi misi a scrivere delle storie con protagonisti bambini ribelli e inguaribilmente antiautoritari. Quella sera in pizzeria avevo bevuto, ma basta poco per dirmi ‘bevuto’, due birre o tre bicchieri di vino già mi rendono la vita leggera e la parola fluida. Non so quanto avevo bevuto, ma ricordo che lessi una storiella, e poi un’altra e poi un’altra ancora. Non so chi mi stesse ad ascoltare, forse le leggevo a me stesso per nascondere la vergogna di essere ubriaco (ho sempre qualcosa di cui vergognarmi). Però tu ascoltavi, mi stavi ascoltando. Mi chiedesti se ne avevo scritte delle altre, di storie. Io sorrisi. Erano storie strampalate che parlavano di bambini che volevano i capelli lunghi o mangiare sempre gelati e solo gelati o che chiedevano al parroco a dottrina come faceva ad essere vergine la maria, la madonna per intendersi, se era la madre del cristo, del gesù o come lo volete chiamare. Come poteva essere vergine maria?, si chiedeva uno di quei bambini. A chi potevano interessare quelle storie, che scrivevo solo per tenermi compagnia e pensarmi meno solo? A te interessavano e mi chiedesti di fare delle fotocopie. Fotocopie. Io trascrissi al computer quelle storie e te le diedi. Tu le portasti via e dopo qualche tempo mi chiesero di fare un libro. Ne scrissi delle altre e alfine mi ritrovai con il libro in mano, I bambini terribili. Un libro vero. Un libro che tu hai visto per primo, anzi solo tu hai visto, perché io vedevo altro, un quaderno, un piccolo quaderno sgualcito, e basta.

Negli anni ci siamo avvicinati e poi ci siamo allontanati. Una sera, una sera in cui tu avevi bevuto, avevi bevuto tu, mi trattasti male, mi facesti del male. Avevi bevuto, ma eri sincero, l’alcol ci fa ancora più sinceri di quanto noi anime sincere possiamo essere. Mi facesti del male e non capii perché. Eri ubriaco, mi dicesti. Ma va così la vita che rimaniamo con risposte incompiute e parole monche. Io so che ci rincontreremo e ti racconterò altre storie. E forse capirò. O forse no. Che importa. Che importa capire, al fondo. Io sono uno scrittore e mi basta un solo lettore per essere contento. Uno solo. Grazie per aver letto i bambini terribili.

La sfuggevole stanzialità del viaggiatore

Ogni tanto mi capita di incontrare delle persone che hanno letto il mio libro patagonico e mi chiedono se ho altri viaggi in programma (intendono viaggi di quel tipo). Sono anche interessate a sapere se sto scrivendo un nuovo libro (di quel tipo). In questi casi mi vien da pensare che Patagonia controvento sia il mio libro più noto, o quello che più ha colpito il pubblico dei lettori. Eppure, spesso, anche chi lo ha letto non sa della pubblicazione, per lo stesso editore, di La bici sopra Berlino. Gliene faccio cenno ma mi guardano un po’ sorpresi. Cosa c’entra Berlino con la Patagonia? Cosa c’è di esotico e misterioso in una città, per di più una capitale europea? Me lo chiedo anche io. In effetti, non so spiegare a queste persone e forse nemmeno a me stesso perché un libro ha seguito l’altro e, soprattutto, perché dopo il viaggio in Patagonia non ne abbia più fatto uno simile o perlomeno qualcosa che gli si avvicinasse un po’. A dire il vero, dopo Berlino non ho più pensato ad un nuovo libro “di viaggio”. Devo guardare la realtà negli occhi: i miei interessi sono disparati e spesso in competizione l’uno con l’altro. Mi complico la vita da solo, ma lo fanno un po’ tutti, no?   Continua a leggere

Caribe # 01

La sera guardo fuori dalla finestra, in camera da letto. E’ una finestra dalle dimensioni ridotte, quadrata, cinquanta centimetri di lato, attraversata da tre sbarre. E’ parzialmente coperta dai rami e dalle folte foglie di un albero che cresce nel cortile di un vicino, ma ciò non impedisce di vedere il mondo che sta fuori. In lontananza, oltre uno spazio vuoto che pare un cantiere non attivo, c’è un palazzo costruito solo a metà. La struttura sembra completa: ci sono i piani, le scale, il tetto, ma giace aperta, come un animale sezionato. Non ci sono finestre, né porte, né tantomeno corrimani, ma qualcuno ci vive. Scorgo una donna, dei bambini che corrono nelle stanze nude, vuote. Sono occupanti abusivi. Il clima li aiuta, non fa mai freddo e anche se piove poi torna il sole, un sole caldo. Sono poche le zone della città senza spazi occupati. Di solito sono angoli abbandonati: sottoponti, parcheggi inutilizzati, palazzi fatiscenti da tempo in disuso. Questo è così nuovo da non essere nemmeno finito, quindi è particolarmente prezioso. C’è un uomo che fa la guardia all’ingresso, una fessura ricavata a forza tra le lamiere che circondano l’area. Ha in mano una pistola. Da chi si sta proteggendo? Se la puntasse nella direzione della mia finestra avrei paura. Nessuno mi ha mai puntato una pistola. In fondo quanti metri ci dividono? Cinquanta? Sessanta? Così, però, osservandolo da una certa distanza, dietro una piccola finestra con le sbarre per metà coperta dai rami di un albero, mi sento perqualchestranaragione al sicuro. E’ come un pezzo di teatro, e io sono l’unico spettatore. Ma basterebbe che l’uomo si accorgesse di essere osservato e il protagonista diverrei io. I nostri ruoli sono, come dire, intercambiabili.

Monopattino

Stamattina il mio umore seguiva le nuvole. Non quelle in cielo, che ce n’erano poche, beato sole, ma quelle dei pensieri. Erano scure. Camminavo verso la fermata del bus, alle 8.30 di una domenica di ottobre. Camminavo cercando di seguire il suono dei miei passi. C’è armonia nei passi che non può essere nell’animo? Sento delle ruote piccole e dei salti intermettenti avvicinarsi veloci. Non faccio in tempo a voltarmi che vengo superato da un bambino sui dieci anni, in monopattino. Veste di nero, le sneakers nere anch’esse, anonime. Le due treccine che scendono dai lati della fronte sobbalzano al ritmo del monopattino. In testa, la piccola kippah. Sul manubrio porta appeso uno zainetto, è di colore scuro ma è certamente bambino. Benevenuto a Stamford Hill. Vedere bambini in giro da soli è una delle sensazioni più rassicuranti e piacevoli. Cosa c’è di più tranquillizzante di un bambino che si sposta da solo? Pensare di trovarsi in una delle città più popolate al mondo è in questo senso spiazzante. Spesso, troppo spesso, in Italia, di questi tempi,  i bambini vengono condannati all’automobile, allo spostamento coattivo con l’adulto. I genitori non lasciano andare i figli a scuola o a calcio da soli nemmeno nei minuscoli paesi della profonda provincia. L’ossessione mediatizzata della sicurezza? Il mondo ucciso dalla televisione?

Stamford Hill è un quartiere di Londra che ospita la più grande comunità ebrea ortodossa d’Europa. Nello stesso quartiere, la seconda comunità più numerosa è quella mussulmana. Scendendo verso il centra città si scorgono diverse sinagoghe, poi una moschea e improvvisamente ecco Dalston, centro di intrecci di culture caraibiche. Viaggio attraverso storie e continenti nell’arco di pochi chilometri. Negli anni sono venuto spesso in questa zona e mi ci sono in qualche modo affezionato. Non è solo affascinazione per l’altro, per le diversità apparenti o sostanziali, ma un sentimento di attrazione per lo spaesamento. In un luogo dove molti sono “diversi”, ci si sente meno diversi? Ma diversi da cosa?

Il bambino in monopattino ha dipinto la giornata di un colore tenue e confortevole, nonostante l’uniforme divisa scura della sua comunità/identità. E’ un’immagine parziale, dice solo una piccola parte di quello che accade, ma per oggi mi basta.

E invece

Ogni giorno c’è qualcosa che dovrei scrivere. Dovrei nel senso che sento la necessità di scrivere qualcosa su di uno o più argomenti, che poi è quasi sempre una notizia, una storia giunta da chissàdove, raccolta alla radio o in un libro o nei notiziari o semplicemente qualcosa che mi rimbalza in testa dopo aver spaccato la legna. Mi sveglio e rimango a letto e i pensieri finiscono lì. Ecco qualcosa da scrivere. E’ così da anni. Anche per questo avevo cominciato (in un’altra vita) a tenere un blog. Per lasciare libere tutte queste voglie di scrittura, che poi sono bisogni che se non te ne liberi ti rimangono dentro e ti creano delle bolle nella scatoletta cranica, piccole o grandi, ma sempre bolle, e le bolle sono piene di aria, vuote e piene d’aria, e sono fastidiose, le bolle. Certe volte devi per forza metterti a scriverle queste cose, solo per svuotare le bolle o farle scoppiare. Ma sono così importanti, le cose divenute bolle? A chi importa(no)? Per esempio, importa che il mondo è così pieno di stronzi, e i più grandi rivestono ruoli di potere, che io debbo necessariamente scriverci qualcosa contro o sopra comunque scriverci? Leggeranno mai i miei improperi in lettere? Saranno meno stronzi perché glielo dico io? Poi penso, forse potrei fare qualcosa di meglio che scrivere. Per esempio occupare venti minuti appena alzato facendo yoga e smentendo il fisioterapista che mi aveva assicurato che con la mia sciatica avrei dovuto dimenticarmi la bicicletta e che anche stare seduto sarebbe stato un problema e invece vado ancora in bici e passo molto tempo, troppo tempo, al computer e la schiena, la schiena beh, c’è ancora. Potrei imparare a cucinare le torte che se divento vecchio mi piacerebbe saper cucinare delle buone torte, non perché sia particolarmente goloso, sì lo sono ma non particolarmente, lo sono e basta, ma solo perché le torte sul tavolo, un tavolo comodo con varie sedie, trasformano una stanza in un rifugio, anzi un ricetto che fa rima con ricetta e dirlo anzi scriverlo mi fa credere di conoscere parole. Oppure potrei riprendere in mano quel libro lasciato anni fa, o capito solo in parte o a metà, magari. Potrei anche uscire e fare una camminata per aiutarmi a capire chi ero io vent’anni fa quando aiutavo persone disabili a trascorrere le vacanze al mare. Aiutare gli altri è la miglior terapia contro i turbamenti, lo dico sempre a T., ma non so se mi ascolta, son vent’anni che glielo dico. Potrei studiare l’infanzia così per preparmi alla crescita di O. che quando al suo posto c’ero io non sapevano che farne, dei bambini, non c’erano libri sui bambini e se c’erano erano da un’altra parte, e facevano errori, quei genitori, ma erano giovani e i giovani sbagliano, è giusto che sbaglino, anche se sono genitori, senno come possono imparare. Potrei costruire una casa, che una casa è importante, devi avercela una casa, non puoi mica vivere in affitto tutta la vita, pensa quanti soldi hai gettato via in affitti, pensaci, e che diamine, che uomo sei se non hai una casa, tutti hanno una casa, perchè, non hai forse dei nonni, degli zii d’america o di francia o d’australia o dei genitori, eccoti la casa, entranci. Fattela allora, la casa, ma non chiedere a me come si fa, io vivo in appartamento, un investimento dei miei, adesso è casa mia. Quante cose potrei fare invece di scrivere. Invece.

Si fa presto ad arrivare a 30 anni

Ho creato un file in formato PDF del romanzo breve scritto nell’ambito del progetto letterario Estrangeiros/Stranieri, ambientato a Città del Messico. Gli ho anche dato un titolo: Si fa presto ad arrivare a 30 anni. Lo potete scaricare e leggere con calma cliccando sul link indicato in calce a questo post. Se vi piace, mandatemi un messaggio. Se non vi piace, non disturbatevi a scrivermi! (Scherzo, mandatemi anche le critiche).

AdamEstrangeiros

La scimmia dell’inchiostro

Questo animale abbonda nelle regioni settentrionali, è lungo quattro o cinque pollici, ed è dotato di un istinto curioso. Ha gli occhi come di cornalina e il pelo di un nero lustro, serico, morbido come un cuscino. E’ amantissimo dell’inchiostro della Cina: quando uno scrive, lui si siede con una mano sull’altra e le gambe incrociate, aspetta che quello abbia finito, e si beve il resto dell’inchiostro. Poi torna a sedersi accoccolato e resta tranquillo.

Wang Ta-Hai (1791), in Jorge Luis Borges, Manuale di zoologia fantastica

p.s. e se non si accontentasse del resto?

Sanchez e il mio libro marziano

Ho deciso, Sanchez lo compro io. Sono stanco di questo tira e molla tra non so quante squadre che vogliono il nostro cileno da esposizione. Ogni volta che leggo notizie italiane trovo l’ennesimo aggiornamento sulla saga Sanchez, non ne posso più. Così ho deciso di fare un’offerta anche io, utilizzando i proventi futuri di un contratto editoriale extra-planetario. Ho fatto un accordo per la pubblicazione di un libro (con opzione per altri due) per un editore di Marte, il noto pianeta a macchie rosse e rossastre. Ho in mente una storia di ex-astronauti a piedi nudi e maniche di camicia rivoltate che si siedono sulla veranda del pianeta Marte e buttano lo sguardo di sotto o di sopra o di lato, comunque dove diavolo si trova in quel momento il pianeta Terra. Cosa combinano quelli là? Chiede uno, sorseggiando del pastis (il pastis e la bevanda alcolica più popolare su Marte). A me sembrano tutti pazzi, risponde l’altro. Adesso non esagerare, solo perché sei emigrato quassù adesso ti senti di un altro pianeta. Ma sono su di un altro pianeta, quindi posso sentirimi di un altro pianeta. Non fare il filosofo, qua siamo tutti reietti, ecco la verità.

La storia prosegue con vari colpi di scena, che non svelo ora per non compromettere il successo del libro. Anzi no, uno lo svelo. Una partita di vin brulè affumicato viene bloccata alla dogana di Marte, facendo scoppiare uno scandalo sul contrabbando di vino di scarsa qualità. Tutti danno la colpa dei disatri ai due terrestri, gli ex-astronauti di cui si è detto prima. Come spunto non mi pare malissimo, credo ne potrebbe venire fuori un discreto libro per il pubblico di Marte. Ora mando un fax con la mia offerta per Sanchez. Ho solo un dubbio: accetteranno soldi provenienti da un’altra sfera temporale?

La parola incrinata

Cosa dicono le immagini che le parole non riescono a dirci? Mi sono infilato in questa dimensione di pensieri ormai da alcuni anni al punto da non capire più che cosa sono venuto al mondo a fare. Scrivere? Riparare biciclette? Preparare panini? Ascoltare storie? Raccontare storie? E come, se è questo che sento di dover fare? Quale strategia è la migliore, la mia più vera? Le immagini mi attraggono e nel contempo mi intimoriscono. No, non si dà. Uno che filma non può aver paura delle immagini. No. O forse sì. C’è onestà nel tradire la propria emotività. E’ solo per cercare di capire meglio le persone che mi sono messo in testa tutto questo. La parola è confortevole. La parola – quando cade sul foglio e lì rimane, unita ad altre senza più ripensamenti – è un giaciglo dove ci si può riposare. O almeno una cornice dove tutto sembra avere un suo posto e a cui si può guardare alle ricerca di funzionalità, comprensione, sensatezza. Ma l’immagine? L’immagine può essere tutto il contrario. Sfugge i confini che le si pongono. Sfora sistematicamente i bordi. Dice sempre di più e altro di quello che vorremmo che dicesse o penseremmo potrebbe dire. E’ la sua magia. Per i nativi digitali le immagini e gli schermi che le moltiplicano e le trasformano non sono nulla. Sono. Per chi ha più di trent’anni sono qualcosa da capire, qualcosa che si impara ad usare. Internet ha poco più di quindici anni. E i telefoni cellulari, quanti anni hanno? Come è possibile capire il mondo delle generazioni più giovani basandosi solo sulla parola? Si finisce per costruire una conoscenza ad uso di chi la parola la vive come mezzo esclusivo di rappresentazione della realtà. Ma che valore avrà la parola scritta tra vent’anni? E quali saranno i modi per fruirla? Forse vale la pena rischiare, mettersi in gioco, apprendere, scostarsi di qualche passo dal terreno noto. Intravvedere un sentiero che porta avanti, comunque lontano dalle palafitte di parole sulle quali confortevolemente stiamo assiepati. Sapendo che la parola e il testo avranno sempre il loro posto, ci saranno sempre utili e preziosi. Ma forse non più indispensabili.

Il ritorno dello scaffale

Lo scaffale è protettivo. E’ accogliente come uno scialle di lana rispuntato intatto da un vecchio armadio. Allunghi il braccio per raggiungere una confezione lasciata indietro, addossata al fondale, e la riporti avanti. In quel gesto semplice, nudo, il nastro del tempo si riavvolge. Che anno era? 1984? O 1985? Gli scaffali allora erano bianchi, o comunque chiari, e riempirli era un dovere, un impegno familiare. Quanti anni passati a riempire scaffali? Venti, più o meno. Le scatole di cartone venivano scaricate, stipate, svuotate, smontate e infine caricate per un viaggio a ritroso. Il loro contenuto finiva negli scaffali. Gli scaffali erano le alpi e il mare nella vita dei prodotti. Muovere i prodotti da un luogo all’altro era un piccolo viaggio che la fantasia adolescente non si lasciava sfuggire. Grazie alla fantasia lo scaffale era la porta di un mondo impossibile. Oggi lo scaffale non è più famiglia, non è nemmeno casa. Forse ha un significato simile ma pronunciato in un’altra lingua.  Oggi lo scaffale è un impegno cercato, in un luogo diverso. E’ un ritorno inatteso, ma protettivo. Un atto volontario. Non si chiama più cooperativa di consumo, ma foodcoop. Tutto appare diverso. A parte lo scaffale. Un paesaggio di prodotti in varie lingue che sembrano capirsi tra di loro. Il mio braccio si allunga per recuperare una confezione lasciata indietro. Che anno è?