E’ divorzio

E’ ufficiale. Le lettere S e B hanno divorziato. Non faranno più le iniziali di nessuno. “E’ una decisione irreversibile?”, ha chiesto un giornalista alla lettera S durante la conferenza stampa indetta presso la sede dell’Alfabeto. “Sì – ha risposto una S visibilmente logora, due profonde occhiaie a marcarne i contorni – non c’è altra scelta. Quando ci vede assieme la gente fugge. Chiudono i bambini in casa. E’ troppo. Vogliamo tornare ad avere una vita normale, come tutte le iniziali”.

Il Whiskey film festival e la Biennale Barilla

Mi pare essere un fenomeno prettamente irlandese quello di ri-nominare i festival artistici e cinematografici in onore di una qualche bevanda alcolica o super-alcolica, in virtù di un rapporto di sponsorizzazione interpretato in maniera perlomeno stravagante. Da un paio d’anni il Dublin Film Festival è diventato ufficialmente il Jameson Dublin International Film Festival, dal nome di una marca di whiskey. Non è uno scherzo, il festival passa ormai nell’uso comune per “il Jameson”, se perfino un filmmaker di mia conoscenza lo chiama così. Io evito come la lebbra questa definizione, al massimo opto per il più pratico Whiskey Film Festival, ma solo con chi credo accetti l’ironia (non sono in molti).

Il tema è certamente delicato. L’alcol è croce (e poco delizia) dell’irlandese medio. Di tanto in tanto qualche ufficio governativo fa uscire i risultati di uno studio sull’alcolismo, sui problemi sociali e sanitari legati all’abuso di alcol, ma nessuno ci fa caso. Come potrebbe essere altrimenti? La prima e unica associazione imprenditoriale a comprare spazi pubblicitari in tempi di recessione è stata quella dei gestori di pub. Alcuni mesi fa, accortisi che la gente andava meno al pub (preferendo comprare alcol da Lidl e berselo sul divano di casa), hanno intasato i media nazionali con uno spot dal tono romantico sulle virtù della socializzazione in public house (pub).

Le aziende produttrici di alcolici forse soffrono come i pub, ma intanto presidiano ogni spazio pubblico disponibile. Il festival del cinema di Cork, seconda città irlandese, si chiama ufficialmente Corona Cork Film Festival, e non in onore della regina Elisabetta (anatema!), ma della nota birra messicana. Il più importante festival artistico dublinese, il Fringe, si chiama ora Absolut Fringe, in onore di una marca di vodka. Fermo qui l’elenco perché mi sento già brillo. E la Guiness?, si chiederanno i più giunti a questo punto. Per ora Guiness riserva i suoi cospicui finanziamenti per la nazionale di rugby, gli sport gaelici e una multitudine di piccoli e grandi eventi. Probabilmente la Guiness è così importante per l’economia nazionale che non può permettersi di dedicarsi a un solo evento. Però tutto può succedere. Chissà.

Uno dei mie passatempi preferiti mentre mi sposto bicicletta, oltre a canticchiare canzoni a casaccio, è diventato quello di inventare abbinamenti improbabili tra festival e sponsor. Come suonerebbe la Barilla Biennale? O meglio Biennale Barilla? BB, perfetto. Vedo già le due B a caratteri cubitali aleggiare sul Canal Grande, stampate su drappi di raso viola e bianco contornate da teorie di fusilli e maccheroni stilizzati. Ma c’è di meglio: cosa ne dite di Nutella Festival di Spoleto? E infine, il Festival di Sanremo Ferrarelle. Ma potrebbe funzionare anche altrove. Devo trovare un abbinamento simpatico (oltre che remunerativo) per la Berlinale. Qualcosa tipo Benz-Berlinale potrebbe andare. BB di nuovo. E’ destino.

Notizie scritte a spanne

Sul Corriere della sera la notizia dell’uccisione di una donna irlandese in viaggio di nozze alle isole Mauritius diventa occasione per infilare alcuni grossolani errori da parte dello sciagurato redattore. Una delle ragioni di interesse della notizia sarebbe il fatto che il di lei marito è un calciatore. In verità il pover’uomo non è un “calciatore irlandese”, ma un giocatore dilettante di football gaelico, lo sport praticato a livello amatoriale in tutta Irlanda. Probabilmente se il redattore si fosse informato non avrebbe riportato la notizia nel sommario, perchè si tratta di un perfetto sconosciuto agli appassionati di calcio: infatti pratica un altro sport! L’errore più madornale dell’articolo è tuttavia il citare il padre della donna come presidente della GAA (Gaelic Athletic Association), la potentissima e ricca organizzazione degli sport gaelici, che oltre al Gaelic Football includono anche Hurling, Camogie, Handball. Mickey Harte, il padre della ragazza, è in realtà l’allenatore della squadra di football gaelico della contea di Tyrone, vincitrice nel 2008 del trofeo All Ireland del suddetto sport. Se le notizie che riguardano un paese europeo sono così approssimative viene da chiedersi cosa fa il principale quotidiano italiano con le notizie di qualche paese lontano, che so, la Cina o l’India.

Esercizi di italiano per stranieri…

I lettori più fedeli di questo cortile digitale avranno notato che è avvenuto un cambiamento nella politica gestionale: le immagini sono state ufficialmente ammesse nei post! Al principio la scelta di non postare immagini e/o video era dettata dalla convinzione che fosse opportuno concentrarsi sulla parola scritta. Ho cambiato idea, lo ammetto. D’ora in poi ci sarà un uso ponderato di foto e video, così i miei interventi assumeranno una vera dimensione multimediale. Hurrà.

L’immagine qua sopra è la copertina dell’ultima edizione di Da Capo, popolare grammatica della lingua italiana in uso nelle università statunitensi, pubblicata dall’editore Cengage/Heinle. Un brano del mio libro La mia casa è dove sono felice è stato inserito quale materiale di lettura ed esercitazione al capitolo 7.  Tra le note di presentazione del volume ho trovato queste righe che mi hanno fatto sussultare…! Misteri del marketing.

Based on popular demand, Lettura readings, such as “Vespa” and “La zona in cui vivo” have been retained, while new readings by Max Mauro and Natalia Ginzburg now encourage deeper exploration of chapter themes, as well as cross-cultural comparisons in the Temi per componimento e discussione sections.

p.s. La foto di copertina è perfetta, no?

Macchine da consumo

Udine è circondata da centri commerciali. Nell’arco di circa dieci chilometri ve ne sono cinque, di dimensioni diverse ma tutti affini nell’idea: portare persone automunite a perdere tempo nei loro meandri riscaldati (o, d’estate, climatizzati). Sono cresciuti rapidamente, di numero e dimensioni, nell’arco di quindici anni, con uno scatto da velocista negli ultimi cinque. Al Città Fiera, il più grande e “popolare”, non manca nulla. Non è più solo questione di negozi, ristoranti, cinema, palestre. No, ci sono anche i medici specialisti, che hanno trovato ospitalità in una torretta nel bel mezzo dell’arena consumatoria. Il cerchio è completo. Non c’è bisogno di null’altro. Dalla patologia alla cura, tutto a portata di cammino. Dentro il capannone.

Quello dei centri commerciali alla città sembra un assedio, ma all’incontrario. Mentre gli assedi delle fortezze medievali miravano a portare gli assedianti dentro la città, a farne cosa propria occupandola, l’assedio dei centri commerciali mira a portare gli abitanti fuori, ad attrarli verso la vita ologrammata che si svolge nella cittadella del consumo, a “disossare” la città stessa. L’assedio funziona bene, visto che il centro cittadino perde negozi e assomiglia sempre più ad un salottino per boutique e bar eleganti. Probabilmente i centri commerciali non c’entrano, ma gli abitanti sono in calo e nemmeno gli immigrati riescono più a sostenere l’annosissima ambizione udinese di raggiungere i centomila residenti. Persino le librerie si spostano nella nuova città ancillare, alla ricerca del consumatore a tutto tondo, la perfetta macchina da consumo (anche il libro è merce, no?).

Gli “shopping mall” come li vediamo oggi proliferare ovunque ci siano potenziali consumatori, localizzati in aree suburbane o extraurbane dell’occidente e dell’oriente, del nord e di certo sud del mondo, sono il prodotto dello sviluppo urbanistico statunitense. Non a caso la data di nascita è indicata negli anni cinquanta, gli anni del boom dell’automobile negli Usa e della vita suburbana. I centri commerciali, intesi come contenitori fisici di più negozi, sono nati prima dell’automobile e del delirio urbanistico made in Usa, e trovavano spazio dentro le città, come il KaDeWe a Berlino, in palazzi storici o edifici degni di tale nome. In alcuni posti esistono ancora, ma sono gli altri, secondo me, il vero problema, quelli pensati in funzione dell’automobile.

Al pianificatore, al politico, all’amministratore pubblico, nulla importa del futuro, di quello che accadrà tra venti o trent’anni. Conta l’immediato, la promessa di “dare lavoro” per un anno o due a qualche centinaio di manovali per costruire e a qualche decina di commessi e guardiani quando il tutto sarà pronto. Ma che sviluppo ci aspetta? L’automobile – in città, ma non solo – ha il fiato corto e perfino negli Usa in molti se ne stanno accorgendo. Costruire strade non fa che aumentare il numero di automobili in circolazione. E costruire negozi in mezzo al nulla non fa creare nuove mete per l’incessante desiderio di consumo. “I negozi in città sono scomodi”, dice l’uomo/donna medio/a. “Si fa fatica a parcheggiare e poi hanno orari ridotti. Al centro commerciale vai quando vuoi e trovi sempre parcheggio”. Il ragionamento non fa una grinza. Ma che cosa c’è dietro questa apparente logicità? Il fatto che il consumo è diventato un’attività quotidiana, come andare al bar o passare a salutare la nonna. Non il consumo per fini alimentari o di sussistenza, ma il consumo come svago/passatempo ecc. Hai mezz’ora di tempo alla fine del lavoro? Sali in auto e voli al centro commerciale. Ti serve qualcosa? No, o forse sì, anzi sì, sì certo. Anche se hai già quattro paia di scarpe “outdoor”  magari ne trovi un paio scontato, più bello degli altri tre. E poi è meglio avere ricambi, anche di cose che non usi ogni giorno. La logica è illogica, ma funziona, s’impone, quindi è più logica.

Tre allegri ragazzi in fuga dalla morte (musicale)

L’amica K. mi scrive dopo un silenzio di mesi e mi chiede: che musica ascolti?  E’ domanda utile nel momento in cui si transita da un anno ad un altro. Devo pensarci su. Di questi tempi mi capita di rado di comprare musica, mi affido alla radio, soprattutto alle trasmissioni in streaming di BBC6. Però, ci sono delle cose musicali che si fanno cercare. Come l’ultimo disco dei Tre Allegri Ragazzi Morti, uscito nel 2010, Primitivi del futuro. E’ un disco coraggioso e schiettamente bello. E’ coraggioso perchè sposta la barra della navicella musicale che i Tre ragazzi avevano navigato fino ad oggi, e lo fa in modo apparentemente radicale. Dagli inni tardo-adolescenziali in punta di chitarra si passa ad atmosfere dove l’ibrido pop dei TARM incontra ritmi reggae pronunciati: sembra di trovarsi in Giamaica in compagnia dei Teenage Fanclub guidati da un Rino Gaetano capace di lucide malinconie pasoliniane. Non so se i fan dei vecchi Tre allegri siano soddisfatti ma io lo sono di certo. E’ da persone intelligenti e curiose della vita cercare nuove strade e non aver paura di lasciare il sentiero conosciuto. Evviva i cercatori di (nuova) vita!

Da poco è stata pubblicato un disco che raccoglie versioni in stile DUB di alcuni brani di Primitivi del futuro, rimescolati da Paolo Baldini. E’ un altro tassello originale dell’avventura TARM di questi giorni. Un’anticipazione è scaricabile gratuitamente QUI.