E’ incredibile l’arretratezza e l’ignoranza che circondano il tema del razzismo e in particolare dell’insulto razzista. Ogniqualvolta la questione riemerge a livello pubblico, come accade in questi giorni in seguito agli episodi accaduti sui campi della Pro Patria, si leggono e ascoltano le più assurde giustificazioni. Sorvolo sugli interventi deliranti dei rappresentanti della destra, in primis quelli della Lega Nord (“Negher non è un insulto, dipende da come lo dici”, ha ruttato il deputato Salvini), e mi soffermo su quanto espresso dai media. In un articolo de La Stampa si legge:
Anche se alla fine, sotto sotto, come dice Christian, un insulto è un insulto e non è che sia più grave per il colore della pelle di chi è preso di mira.
Christian è un esponente degli ultras della Pro Patria, ma non è questo che importa. La frase è chiara: quella espressa non è semplicemente l’opinione di un tifoso di calcio, ma dello stesso articolista che con quel “anche se, sotto sotto” esprime un mondo (piccolo e gretto). Questo è particolarmente grave. Non saper distinguere tra un insulto razzista e un altro tipo di insulto è un segno dei tempi grami che viviamo in Italia.
Per spiegare il mio pensiero, prendo a prestito la spiegazione del Race and Equality Centre di Leicester, in Gran Bretagna. Diversamente da altre forme di insulto, quello razzista prende di mira una persona per la sua appartenenza ad un particolare gruppo etnico o razziale. Insultare qualcuno per come si veste o per il suo peso è un gesto crudele, sottintende che c’è qualcosa di anormale in quella persona. Ma chiamare uno “bingo bongo” o “negro di m.” esprime che non è solo la persona insultata ad essere “anormale” ma il suo intero gruppo etnico e razziale. Il messaggio è che tutti quelli del suo gruppo sono inferiori.
In questi anni sono stati scritti e pubblicati numerosi documenti sul tema del razzismo fuori e dentro i campi di calcio. Non si può (più) dire che non si sa di cosa si sta parlando.