Canta il sogno del mondo – D.M. Turoldo

 

Ama

saluta la gente

dona

perdona

ama ancora e saluta

(nessuno saluta

del condominio,

ma neppure per via)

 

Dai la mano

aiuta

comprendi

dimentica

e ricorda

solo il bene.

 

E del bene degli altri

godi e fai

godere.

 

Godi del nulla che hai

del poco che basta

giorno dopo giorno:

e pure quel poco

-se necessario-

dividi.

 

E vai,

vai leggero

dietro il vento

e il sole

e canta.

 

Vai di paese in paese

e saluta

saluta tutti

il nero, l’olivastro

e perfino il bianco.

 

Canta il sogno del mondo:

che tutti i paesi

si contendano

d’averti generato.

David Maria Turoldo, O sensi miei… Poesie 1948-1988, BUR.

Lucrative contraddizioni dello sport moderno

Max Mauro, Il Manifesto, 27 Settembre 2016

La partecipazione di una squadra di rifugiati alle Olimpiadi di Rio ha catturato l’attenzione dei mezzi di informazione di buona parte dell’Occidente. Più d’uno, senza troppa fantasia, l’ha definita «una grande storia Olimpica». Tutto ciò è comprensibile se si tiene a mente che tra principi del movimento olimpico vi è quello di «contribuire alla costruzione di un mondo migliore e più pacifico educando la gioventù per mezzo dello sport, praticato senza discriminazioni di alcun genere» (articolo 6 della Carta Olimpica). Nel sogno delle Olimpiadi, lo sport viene inteso come massima espressione degli ideali universali di uguaglianza e inclusione sociale. Nel presentare l’iniziativa, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Thomas Bach, aveva sottolineato l’ambizione che il Team Rifugiati potesse rendere il mondo più consapevole della crisi dei rifugiati. Le poche voci critiche hanno puntato l’attenzione sulla visibile contraddizione di una comunità internazionale che, particolarmente in Europa, nega i diritti all’accoglienza dei rifugiati costruendo muri, attaccando navi disarmate cariche di disperati e organizzando rimpatri coattivi di minori non accompagnati, mentre invita alcuni “fortunati” a partecipare al più spettacolare festival dello sport. Continua a leggere

Il generale nero: una storia italiana

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Mauro Valeri continua la sua personale preziosa ‘missione’ di scandagliare ed esporre alla luce la grandemente ignorata storia dell’Italia multietnica e multirazziale. Dopo aver raccontato la vita di Leone Jacovacci, pugile meticcio degli anni venti e trenta dello scorso secolo, del partigiano Alessandro Sinigaglia, figlio di un afro-americana e di un italiano, e del calciatore Mario Balotelli, nel suo ultimo libro Valeri si dedica ad una storia individuale che esplora gli eventi della prima guerra mondiale e del fascismo da un prospettiva originale. Come il camminatore al margine cantato dai Fugazi, Valeri si posiziona ai margini della scena per coglierne con più chiarezza gli eventi. Il ‘margine’, in questo caso, è il ruolo degli afro-italiani nei primi decenni della Repubblica e in particolare nella prima guerra mondiale. Domenico Mondelli, il protagonista del volume edito da Odradek (Il generale nero. Domenico Mondelli: bersagliere, aviere e ardito, 2015) può vantare diversi importanti primati, ma dubito che tra i lettori ci sia qualcuno che ne sia al corrente. A scuola nessuno ci ha parlato del primo, e unico, generale di corpo d’armata nero. O del primo aviere nero nella storia dell’aviazione  militare mondiale. Un nero italiano. La scuola, questa fucina di omogeneità e immaginario unificante al soldo del mito nazionale, non ha tempo per esperienze discordanti dallo spartito ufficiale. Lo stesso si può dire dei mezzi di comunicazione popolari: la televisione, il cinema, la letteratura. Eppure Domenico Mondelli, come Leone Jacovacci, è portatore di una storia che incarna le caratteristiche di eccezionalità e di originalità che fanno di una storia una storia avvincente. Fino ad ora, tuttavia, nessuno ne ha parlato.

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Il senso del lavoro – pt. 2

Continuo questa mia riflessione a mo’ di elzeviro sul senso del lavoro. Ho pensato che quanto scritto nella prima puntata era un richiamo inconscio a qualcosa che avevo pubblicato circa un anno fa sul mio blog. Forse i miei pensieri si rincorrono, ma sta di fatto che il tema era lo stesso, e le (amare) conclusioni, simili. Immagino che alla maggioranza dei lettori della Bottega* quel mio contributo preliminare sia sfuggito (!); in ogni caso, trovo utile riproporlo allacciandolo a quanto abbozzato la scorsa settimana. Ho fatto dei piccoli aggiustamenti editoriali, ma il contenuto è lo stesso. Nel prossimo appuntamento (probabilmente conclusivo) affronterò il tema della precarizzazione del lavoro nell’università e le implicazioni che questo processo ha per il ruolo del docente, educatore, e perché no, mèntore.

Il moderno sfruttamento salariale in chiave tecnologica

Alcuni giorni fa sono saltato sulla sedia leggendo un piccolo articolo di Repubblica.it che trasudava bugia fin dal titolo: “Il lavoro Usa centra le attese: creati 223mila posti ad aprile”. Da espatriato o emigrato che dir si voglia, anche se i termini non sono equivalenti, mi piace tenermi informato su quello che succede nel paese che mi ha cresciuto e aiutato a diventare quello che sono. Spesso, però, leggendo le notizie da una prospettiva rifratta dalla distanza, ne traggo sensazioni discordanti.In questo caso, non ho potuto fare a meno di pensare all’articolista che ha compilato l’articolo e possibilmente scritto anche il titolo. Si è chiesto cosa significa “posto di lavoro” oggi negli USA e in altri paesi di capitalismo rampante come la Gran Bretagna? Si è chiesto il significato di “lavoro” in una società di quel tipo? Che messaggio vuole trasmettere (beh, questo è piuttosto esplicito e Hollywood non potrebbe far di meglio, di questi tempi)?

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L’arte di ascoltare e i dubbi della sociologia

TheArtOfListening

“L’arte di ascoltare” (The Art of Listening) è il titolo di un libro pubblicato nel 2007. Il suo autore si chiama Les Back e insegna sociologia al Goldsmith College, Università di Londra. Prima di trasferirmi in Irlanda per il dottorato (o semplicemente per poter ricercare un tema che mi affascinava, la borsa di ricerca me ne ha dato la possibilità), non avevo mai sentito parlare di Les Back. Avevo anche un sentimento conflittuale con la sociologia, sviluppatosi e mai del tutto risolto sin dai tempi dell’università, alla facoltà di scienze politiche a Padova. Quando arrivai a Padova, nell’autunno del 1986, la facoltà era in piena fase di “riflusso”, dopo i danni causati dal processo “7 aprile” (1979) che aveva portato all’incarcerazione o all’esilio (o a tutte e due) di un folto gruppo di docenti e ricercatori, colpevoli solo di scrivere libri, discutere, e insegnare.

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Il vuoto al di qua della barriera. Il razzismo nel calcio e le parole di un allenatore

Un giocatore dilettante di calcio viene squalificato per dieci giornate per insulti razzisti rivolti ad un avversario di origine africana. Capita in Friuli, campionato di prima categoria della provincia di Udine. Così riferisce il quotidiano locale, il Messaggero Veneto. Gli insulti razzisti sono consuetudine domenicale per i calciatori dilettanti di colore, ma il più delle volte non vengono sentiti dall’arbitro e pertanto non finiscono nel referto. Talvolta, raramente, l’autore dell’insulto è così sboccato e sfacciato che l’arbitro non può ignorarlo. Scatta così la squalifica di dieci giornate, introdotta dalla FIGC nel 2013 per dare un segnale “forte” di impegno contro il razzismo nel calcio a tutti i livelli, come sollecitato dalla UEFA. In realtà, questa norma è stata applicata in pochissime occasioni. Continua a leggere

Il tassista solitario e il Ramadan

All’uscita dalla stazione dei treni di Southampton abbiamo trovato il piazzale vuoto. Non c’era alcun taxi, dove di solito ce n’è una fila piuttosto lunga. In compenso, sotto la pensilina alcune persone attendevano con aria spaesata. ‘C’è uno sciopero?’, ho chiesto a una signora attempata vestita da signora attempata. ‘Non credo, ma è strano, di solito è pieno di taxi’, mi ha risposto. ‘Dove sono allora tutti i tassisti?’, ho rilanciato. ‘Non lo so’. Dopo qualche attimo ecco arrivare un tassista solitario che raccoglie il primo viaggiatore in attesa. Alcuni minuti ed eccone un altro. Passiamo circa venti minuti nel clima autunnale di luglio, riparandoci sotto la tettoia, e infine arriva anche il nostro turno. ‘Dove sono tutti i taxi?’, chiedo allora al tassista dopo avergli indicato la nostra destinazione. ‘Ramadan’, è la secca risposta. Credo di non aver capito bene e gli chiedo di ripetere. ‘Ramadan. Solo noi inglesi siamo in servizio a quest’ora’. In effetti era praticamente il tramonto, anche se mia figlia insiste a dire che se non è buio non è sera e ha ragione anche lei perché alle nove e mezza nel nord Europa fa ancora giorno. Sia quel che sia, non c’erano taxi e questo per la semplice ragione che i tassisti erano impegnati con l’iftar, il pasto di fine giornata durante il mese sacro del Ramadan.

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Di quale paese parla Arrigo Sacchi?

Non ne avesse già abbastanza, il tribolato mondo del calcio italiano deve ora fare i conti anche con le dichiarazioni psichedeliche dell’ex allenatore della nazionale italiana e del Milan, Arrigo Sacchi. Dopo aver assistito al torneo di Viareggio, che raccoglie le migliori squadre primavera, ha dichiarato alla stampa: “L’Italia è senza dignità, non ha orgoglio: non è possibile vedere squadre con 15 giocatori stranieri. A guardare il Torneo di Viareggio mi viene da dire che nel nostro vivaio ci sono troppi giocatori di colore, anche nelle squadre Primavera. Non sono certo razzista, la mia storia parla per me, ma il nostro calcio deve dimostrare più orgoglio”.

La confusione è suprema, il messaggio è pericoloso e, ci scusi o non ci scusi Sacchi, evidentemente razzista. Primo, il fatto che anche nelle squadre primavera ci siano molti ragazzi stranieri non è una novità. Le squadre della serie A acquistano talenti all’estero all’età di 15-16 anni anni, spesso anche prima, e li piazzano nelle squadre giovanili. Per esempio l’Udinese primavera su 25 giocatori in rosa ne conta 13, provenienti da paesi quali Croazia, Slovenia, Bulgaria, Polonia, Austria. Detto questo, cosa c’entrano i ‘giocatori di colore’? L’associazione stranieri=neri è di una bassezza culturale incredibile nel 2015, in un paese europeo d’immigrazione, soprattutto da parte di una figura pubblica di questo livello. Ed è un’associazione palesemente razzista. Se Sacchi, dovendo occuparsi di calcio giocato per gran parte della sua vita professionale, non ha avuto tempo di guardarsi attorno, forse qualcuno potrebbe rammentargli che gli stranieri non sono tutti neri. In ogni caso, se così fosse, che ci sarebbe di male?

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