La cittadinanza sportiva non è un gioco

Max Mauro, Il Manifesto, 18 ottobre 2016

Il tema delle discriminazioni in ambito sportivo è rimasto a lungo al margine dell’interesse di chi si occupa dei diritti dei migranti. Con poche eccezioni, in linea con una tradizione culturale particolarmente fertile in Italia, e che travalica gli orientamenti politici, attivisti, sociologi, giornalisti, hanno considerato lo sport un mondo a parte, che non si relazione con la società e i suoi problemi. È difficile altrimenti spiegare come le ripetute dichiarazioni razziste e omofobe del presidente della FIGC Tavecchio non abbiamo portato alle sue dimissioni. Pur di fronte ad una inedita squalifica da parte sia dell’organo di governo europeo del calcio (UEFA) che dell’organo di governo mondiale (FIFA), Tavecchio è rimasto al suo posto, che ricopre tuttora. Continua a leggere

Lucrative contraddizioni dello sport moderno

Max Mauro, Il Manifesto, 27 Settembre 2016

La partecipazione di una squadra di rifugiati alle Olimpiadi di Rio ha catturato l’attenzione dei mezzi di informazione di buona parte dell’Occidente. Più d’uno, senza troppa fantasia, l’ha definita «una grande storia Olimpica». Tutto ciò è comprensibile se si tiene a mente che tra principi del movimento olimpico vi è quello di «contribuire alla costruzione di un mondo migliore e più pacifico educando la gioventù per mezzo dello sport, praticato senza discriminazioni di alcun genere» (articolo 6 della Carta Olimpica). Nel sogno delle Olimpiadi, lo sport viene inteso come massima espressione degli ideali universali di uguaglianza e inclusione sociale. Nel presentare l’iniziativa, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Thomas Bach, aveva sottolineato l’ambizione che il Team Rifugiati potesse rendere il mondo più consapevole della crisi dei rifugiati. Le poche voci critiche hanno puntato l’attenzione sulla visibile contraddizione di una comunità internazionale che, particolarmente in Europa, nega i diritti all’accoglienza dei rifugiati costruendo muri, attaccando navi disarmate cariche di disperati e organizzando rimpatri coattivi di minori non accompagnati, mentre invita alcuni “fortunati” a partecipare al più spettacolare festival dello sport. Continua a leggere

Coming Soon – The Balotelli Generation

 

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E’ in arrivo il mio primo libro a distanza di sette anni da ‘La bici sopra Berlino’. E anche il mio settimo libro, se si esclude il racconto online per il progetto Estrangeiros (vedi About). Sette è un numero curioso, viva il sette. Il titolo del libro è ‘The Balotelli Generation. Issues of Inclusion and Belonging in Italian Football and Society’ (Generazione Balotelli. Inclusione  e senso di appartenenza nel calcio e nella società italiani). E’ il risultato di una ricerca che ho condotto in Italia tra il 2014 e il 2016 con giovani di origine immigrata che giocano a calcio. E’ un lavoro che cerca la contaminazione tra scienze sociali e indagine giornalistica ed è, in qualche modo, il sunto di dieci anni di impegno e studio cominciati con la pubblicazione de ‘La mia casa è dove sono felice’. Esce per l’editore Peter Lang, maggiori dettagli sono disponibili QUI. Non ha ancora una copertina, quindi ho messo una foto che mi piace. Se ci sono editori italiani interessati a farne un’edizione contattatemi!

La storia di Kelly Maloney, manager di boxe

Sabato scorso, 23 maggio, una modesta palestra di Glasgow ha ospitato il primo combattimento da professionista di un pugile di 23 anni, Tony Jones. Jones ha battuto un veterano della sua categoria, i welter, e ora punta a conquistare il titolo britannico. La notizia non è molto significativa sul piano sportivo. Più interessante del debutto del ragazzo è il ritorno nel mondo della boxe dell’organizzatore dell’evento. Il promoter della serata, e agente del pugile, è una signora di 61 anni, sposata con due figli, che da trent’anni lavora nella boxe, e con un certo successo. Alcuni anni fa Maloney portò il pugile britannico Lennox Lewis alla conquista del titolo mondiale dei pesi massimi. Anche per questo è considerata una delle figure più influenti nella boxe britannica. Ciononostante, è rimasta fuori dal giro per un paio d’anni. Sabato sera a Glasgow c’erano molte telecamere, reti televisive anche dagli Stati Uniti, ed erano tutte lì per lei, non per il suo giovane pugile. La ragione di questo interesse è che Kelly Maloney fino a due anni fa si chiamava Frank ed era un uomo. Quello di sabato era il primo evento pugilistico che organizzava da quando, alcuni mesi fa, ha cambiato legalmente sesso ed è stata riconosciuta come donna.  Continua a leggere

L’Irlanda e gli sport gaelici

Alcune sere fa sono incappato in torme di famiglie di celeste vestite, che percorrevano le vie di Dublino sul far della sera di un lunedì non festivo (niente bank holiday, per intenderci). C’era entusiasmo, palpabile eccitazione, nel loro procedere. I bambini portavano bandiere, anzi bandierine, come si confà alle loro esili corporeità, anch’esse colorate di celeste. Che succede?, mi son chiesto. Gli angeli del firmamento sono scesi in terra per un tour nostalgico, tipo la reunion dei Led Zeppelin? Coi tempi che corrono, di crisi e smarrimento globale, ci potrebbe anche stare. Nulla di tutto ciò, niente ascesi mistiche in massa, almeno per ora. Le magliette e le bandierine inneggiavano alla squadra di football gaelico di Dublino, fresca campione d’Irlanda (di tutta l’isola, perché i campionati di sport gaelici coinvolgono contee sia della Repubblica d’Irlanda che dell’Irlanda del nord). Ero tentato di accodarmi alla folla di tifosi di tutte le età, ma ho soprasseduto, da alcuni anni soffro particolarmente la massa. Il giorno successivo, gli organi di informazione mi hanno comunicato che circa 40mila persone si erano riunite in Merrion Square, forse la piazza più centrale e rappresentativa della città, per celebrare i campioni del Dublin GAA (l’associazione dei giochi gaelici).  Continua a leggere

I confini della parrocchia

Gli sport gaelici hanno una funzione sociale molto esplicita. Servono a mantenere saldi i legami della società irlandese con la sua dimensione rurale, percepita e immaginata come quella più ‘pura’, più ‘tradizionale’, più ‘irlandese’. I campionati di football gaelico (l’antenato rustico del football australiano) e di hurling (una specie di hockey dove la mazza gira pericolosamente ad altezza testa) sono organizzati a livello di parrocchia, di contea e di provincia. Parrocchia? Certo, la struttura della ‘parish’ è ancora cruciale al punto che è finita sui giornali la storia  di due ragazzini che hanno fatto causa alla Gaelic Athletic Association (GAA) perché impedirebbe loro di praticare il gaelic football, imponendogli di giocare nella squadra della parrocchia dove risiedono. L’articolo 20 dello statuto della GAA (scritto nel 1884), noto come la ‘regola della parrocchia’, prevede che si possa far parte esclusivamente del club gaelico della parrocchia dove si risiede. La madre dei ragazzi ha fatto presente che il club della parrocchia è situato a sette miglia (sebbene l’Irlanda abbia adottato i chilometri, i giornali preferiscono ancora comunicare alla vecchia maniera) da casa. La casa di famiglia è sul confine con un’altra parrocchia e il campo sportivo di quest’ultima dista appena un miglio. Se potessero giocare con la squadra della parrocchia confinante potrebbero andare a piedi agli allenamenti e tutto sarebbe più facile. La bellezza dei confini, a ogni latitudine, è che espongono la precarietà delle divisioni territoriali in  un contesto globale sempre più caratterizzato dalla mobilità di merci, persone, paesaggi culturali. Il confine di una parrocchia (!) può diventare la metafora di qualcosa di più ampio. Chi decide chi è dentro e chi è fuori (il confine)? E cosa implica trovarsi dentro (o fuori)?

La GAA ha risposto che la regola va rispettata, se i due ragazzini vogliono giocare devono farlo nella squadra della parrocchia di residenza. Punto. Tutto questo in barba al fatto che la regola è vecchia di un secolo e mezzo e nel frattempo l’Irlanda è diventata parte integrante del mercato globale, ospita varie multinazionali che hanno richiamato persone da molti diversi paesi, ha una società più ricca, diversificata e mobile di quella dell’800. Serve spiegarlo? Probabilmente sì. Nei fatti è probabile che una soluzione di compromesso venga trovata, magari senza farlo sapere ai giornali, così da mantenere l’illusione che nulla cambi. In fondo la GAA ha delle regole flessibili per permettere a coloro che si trasferiscono in città di poter scegliere se giocare per la squadra della contea (oops, parrocchia) d’origine o quella della città dove sono andati a vivere. Questo è particolarmente sentito nel caso di Dublino, dove oggi risiede circa il 30 per cento della popolazione del paese.

Sebbene la GAA sia ufficialmente una struttura amatoriale, le partite inter-provinciali sono seguite da migliaia di persone, trasmesse in tv e commentate sulle prime pagine dei giornali. Va da sé che i giocatori sono ufficialmente dei dilettanti, ma nei fatti…

Africa incontra Irlanda, Manchester United permettendo

Ho visto la finale della Coppa d’Africa nel pub dello stadio dei Bohemians FC, il Dalymount Park. Il Dalymount Park è lo stadio per il calcio più vecchio d’Irlanda, è stato inaugurato nel 1901. Come la squadra che vi gioca, è di proprietà dei membri del club e rispecchia l’identità urbana della zona nord di Dublino, storicamente connotata come ‘working class’. L’invito ad assistere la partita in questo luogo significativo è partito da un gruppo di giovani supporters dei Bohemians, che hanno coinvolto alcune realtà come Integrating Ireland e Sport Against Racism (Sari) con l’intento di attrarre le comunità di origine africana che vivono a Dublino. L’amico Ken di Sari mi ha girato l’invito ed eccomi qua. Sono arrivato presto, l’inizio della partita era prevista per le 4 e alle 3 e un quarto la solida SpartaBike mi aveva già condotto ai piedi dello stadio, dove si trova il pub, incastrato sotto i piloni che sostengono le vetuste gradinate. Il freddo rigido misto all’umido tagliente avevano reso il tragitto in bici un po’ affannoso. Tepore! urlavano le mie membra. Continua a leggere

Il destino di un nome

A cosa serve il nome? A riconoscerci o ad identificarci? Il mio viene spesso confuso o malinteso (continuo e ricevere email che iniziano con “Ciao Mauro” o “Caro Mauro”), quindi sono abbastanza abituato a sentirmi spodestato della mia di per sè già fragile unicità. Da quando ho cominciato il fieldwork per la mia ricerca ho, tuttavia, imparato a fare i conti con la completa aleatorietà del nome. Per la squadra di calcio che sto seguendo, i giocatori, gli allenatori e i responsabili, sono Maximo, pronunciato con l’accento sulla i (non so il perché di questo, visto che all’anagrafe sono un affannoso Massimiliano, e da sempre, per tutti, Max). Ma alcuni giorni fa una bambina che circola attorno al campo da calcio, che in realtà è area aperta a mezza via tra il parco giochi di quartiere e un’area verde non troppo manutenuta, mi ha apostrofato con un imprevedibile “Melvin”. Melvin. Tu sei Melvin, ha urlato correndomi intorno. Il primo pensiero è stato: bene, almeno esisto. E’ un pensiero da etnografo, da osservatore con presunzioni di investigazione sociologica. Però è vero. Melvin, mi son detto, vabbé. Le ho chiesto – urlando perché nel frattempo era corsa non so dove: perché Melvin? Chi è Melvin? Non mi ha risposto, o meglio ha ribadito solo: Melvin, tu sei Melvin. Ho chiesto ad alcuni dei ragazzi del gruppo chi fosse quella bambina, se fosse sorella di qualcuno. No, è solo una che vive lì vicino. E’ pieno di bambini qui attorno, e il campo da calcio li attrae come il miele le api. Il club ha undici squadre giovanili, di cui due femminili, quindi ce n’è un po’ per tutti.

Tornato a casa ho scandagliato internet alla ricerca di un possibile Melvin della tv o dei cartoni animati, ma è nei videogiochi che forse ho trovato quello che cercavo. In Grand Theft Auto c’è un personaggio che si chiama Melvin, porta gli occhiali con la montatura nera e la barba. Tutto qua. Per il resto è nero, grosso e porta un cappellino coi bordi rivoltati, quindi c’entra come i cavoli a merenda con me, ma non essendoci altri Melvin in circolazione mi piace pensare che la bambina abbia visto questo gioco, magari giocato da un fratello più grande e le sia rimasto impresso il personaggio al punto da affibbiarne il nome al primo tipo un po’ anomalo che le è capitato intorno. E’ probabile sia una mia fantasia, d’altra parte la bambina non si è vista in giro da quella volta così  non ho potuto chiederglielo. Per tutti sono continuato ad essere Maximo. E mi sta bene così. E’ appropriato al ruolo di outsider che mi trovo a rivestire.

L’Irlanda d-e-gli U2

La (mia) curiosità può talvolta creare imbarazzo.

Mi sono sempre chiesto cosa pensassero gli irlandesi del fatto che i componenti degli U2 si fossero conosciuti in una scuola protestante. Va tenuto presente che l’istruzione primaria e secondaria è, da sempre in questo paese, monopolizzata dalla chiesa cattolica – in senso pratico, gestionale, non metaforico. Le cose sono lievemente cambiate negli ultimi anni, ma solo lievemente. La Mount Temple Comprehensive School, la scuola di Dublino Nord dove nacque la leggenda pop made in Ireland, è stata la prima scuola a direzione prostestante a venire parificata a Dublino. Dunque, mettiamo in fila alcuni fatti: gli U2 sono da almeno 20 anni l’immagine dell’Irlanda nel mondo; sono un po’ degli eroi nazionali perché partendo da un paese tra i più poveri d’Europa sono riusciti a conquistare il mercato musicale planetario; l’Irlanda è impregnata di clericalismo cattolico nelle sue istituzioni (le sedute del Parlamento si aprono sempre con una preghiera) e nella vita di ogni giorno (ho visto più segni della croce qui in otto mesi che in tutti gli anni che ho conosciuto mia nonna). Cosa se ne deduce? C’è qualcosa di strano nel fatto che dei ragazzi “non conformi” alla massa e all’idea che gli irlandesi vogliono rappresentare di sè da quando hanno uno stato, ne diventino i suoi principali rappresentanti/miti? O meglio, come mai questo aspetto perlomeno singolare della loro storia non viene mai citato o messo in luce?

Ho espresso le mie domande/osservazioni ad A, giovane dottorando irlandese dal piglio sicuro. Era fresco del concerto degli U2 al Croke Park, il grande stadio degli sport gaelici che ospita i concerti più importanti. Dopo avergli chiesto com’era andato il concerto e aver ascoltato i suoi entusiastici commenti, gli ho buttato lì la mia riflessione a buon prezzo. Mi ha guardato come se gli avessi detto che il latte che stava bevendo era scaduto. Non ci aveva mai pensato. Poi ha detto: però anche io ho frequentato una scuola interconfessionale. Sì, 30 anni dopo gli U2 però e in un villaggio al confine con l’Irlanda del Nord. Ok, ma The Edge è gallese. Ok, ma resta il fatto che questi hanno frequentato una scuola dove non si giocano gli sport gaelici (praticamente tutte le scuole promuovono gli sport gaelici). La discussione si è arenata. Forse sono strano io o sono strane le domande che mi pongo. Boh.