L’inclassificabile necessità delle tende

Dovrei smettere di chiedermi perché la stragrande maggioranza delle case di questa via appare con le tende sempre serrate. Ma insomma, avete la fortuna di possedere finestre belle spaziose che possono accogliere sole e ancora sole e vi escludete dalla luce e dal calore del cielo, perché lo fate? Le nostre finestre e quelle dei vicini portoghesi sono bellamente libere da aggeggi frangisole, almeno durante il giorno, ma per trovarne altre aperte bisogna fare un bel giro nel quartiere. Si troveranno alcune, pochissime, bow windows sgombre da tende e la sensazione che se ne trae è di rassicurante socialità domestica. E’ un impulso a credere nell’altro non come ‘Altro’, ma come parte della stessa macilenta maltrattata malintesa navicella che ormai è questo pianeta (finché resiste). Le molte, troppe, tende serrate dicono qualcosa sulle forme della socialità in questo paese. E traversano, apparentemente, classi sociali e distinzioni etniche.

Le tende, questo elemento necessario. Scorrendo i materiali del mio corso in studi sull’infanzia e la gioventù ho trovato altri spunti su cui riflettere. Uno studio longitudinale sulla povertà nel Regno Unito rivela che fra le componenti ritenute basiche per chiamare un luogo ‘casa’ vi sono: lavatrice, telefono, tende o imposte, tavolo e sedie, televisore ed potersi permettere di riparare o sostituire gli elettrodomestici. Questo studio è del 2012 e le precedenti edizioni  del 1999 e del 1983 includono altri componenti della casa essenziale, ma assieme a tavolo e sedie le tende e le imposte sono sempre lì a significare la loro imprescindibilità. Lo studio dice altre cose interessanti per comprendere il ‘benessere’ di questo paese. Per esempio, dagli anni ottanta la povertà è cresciuta, si è estesa ed aggravata. Nel 1983 la percentuale di coloro che non potevano permettersi almeno tre delle necessità domestiche era il 14 per cento. Nel 2012 è del 33 per cento. Nel 1999 la percentuale di coloro che non potevano permettersi di riparare o sostituire un elettrodomestico era del 12 per cento, nel 2012 è passata al 26 per cento.

Sono numeri, e servono a capire, o almeno a darci l’illusione di capire. Di certo, quello che distingue l’esistenza nel mondo del pensiero unico, che avvolge tutto e tutti nel credo del mercato e della socializzazione del profitto, è l’avere. Nell’era di Cameroon e Tonnny Blair il profitto è il credo e chi non si adatta è fritto. Sei ciò che hai e che puoi (di)mostrare di avere. Vale per gli adolescenti spinti al furto di scarpe da ginnastica (oops sneakers alias runners alias ecc.) o di telefoni cellulari per essere notati o semplicemente accettati. Vale per gli adulti, le famiglie e individui soli, categorizzati in base a quello che posseggono.

E le tende? Quelle servono a nascondere le assenze. Non puoi mostrarti allo sguardo dell’altro perché non è accettabile la mancanza. Essere senza avere non è (più) essere. Oplà.

L’inspiegabile suicidio di un uovo

Oggi, rientrando dalla spesa, uno delle sei uova che viaggiava con noi verso casa ha deciso di farla finita. Si è aperto in due in gran silenzio, riversando sul fondo dello zaino buona parte del liquido gelatinoso. Tutto questo senza una ragione plausibile, che so, un urto, uno scossone, una brutta parola delle carote o degli zucchini che si trovavano lì accanto. Ho la sensazione che l’uovo suicida abbia voluto mandare un messaggio. Perché non mi avete portato ad accogliere Tony Blair? Il mio destino era là, voleva dire. Forse l’uovo aveva le sue ragioni, però Tony non si merita un uovo fresco, per di più biologico. Al massimo una vecchia scarpa. Al massimo.

Il guardiano pentito e Facebook

Ci sono delle occasioni in cui mi pento un po’ di non avere la tv. Per esempio, avrei visto con interesse il programma che la BBC ha dedicato all’incontro tra un ex guardiano di Guantanamo e due ex detenuti britannici, avvenuto negli studi dell’emittente negli scorsi giorni. Il modo in cui questo incontro è maturato è singolare. L’ex guardia, che dopo aver abbandonato l’esercito è diventato un poliziotto, ha cercato su Facebook i nomi di alcuni dei ragazzi che aveva conosciuto in quella sciagurata situazione, dove lui si trovava col manganello in mano e loro in catene. Perché l’ha fatto? Perché si sente in colpa, soffre per l’assurdità di Guntanamo e vuole chiedere scusa. Così leggo nell’articolo che riferisce la storia. L’uomo rammenta di essersi trovato a 22 anni a trattare dei ragazzi della sua età come dei mostri, i peggiori criminali della storia (perché così li presentava il governo Usa), mentre nella generalità dei casi erano persone arrestate a casaccio al di fuori di ogni prassi legale. Nei sei mesi trascorsi a Guantanamo, l’ex soldato si è reso conto che molti di quei detenuti erano ragazzi che ascoltavano la sua stessa musica e magari coltivavano gli stessi interessi. Il fatto che i due ex detenuti, che hanno passato ben due anni in quella incredibile prigione, abbiano accettato di incontrarlo penso sia un gesto che ridà fiducia nell’essere umano. Chi l’avrebbe fatto al posto loro?

Il laccio

Alcuni giorni fa io e K., una buon informatore per la mia ricerca, eravamo seduti nel bar dove è solito darmi appuntamento. Questa volta avevo con me il registratore perché volevo raccogliere alcune cose di cui mi aveva fatto cenno al telefono. A un certo punto, verso  la fine della conversazione, K. butta l’occhio sul laccio che portavo al collo con appesa la chiave del lucchetto della bici. E’ uno di quei lacci che ti danno ai convegni o ai festival assieme al pass. Ne ho diversi, ma questo mi è particolarmente comodo. “Alcuni anni fa quel laccio lo avrebbero usato per farti la festa”, mi dice sorridendo e mimando con la mano il gesto del cappio . Rimango basito, guardo il laccio e leggo stampata sopra la scritta “British Council”. Ah. “Ma oggi non c’è problema, sono passati quei tempi”, mi rassicura K. , sempre sorridendo. Prendo la cosa anche io con filosofia, l’umorismo è uno dei terreni di manutenzione delle ‘culture nazionali’ (ogni paese ha le sue cose su cui scherzare) ed è importante intenderlo. K. non è una nazionalista, dice di  venire dal marxismo, è sposato con una donna africana. Ci raggiunge al tavolo un ragazzo, un produttore televisivo che sta realizzando un  documentario sullo sport in Irlanda. K. prende spunto dalla battuta appena espressa e gli chiede: “Non sei originario della contea (dice un nome che mi sfugge), al confine con il Nord?”. “Sì”, risponde il giovane. K. gli indica il mio laccio portachiavi e entrambi sorridono come se gli avessi raccontato una barzelletta. Il nuovo arrivato, sui trent’anni, racconta che il posto in cui è cresciuto si trova alla frontiera con l’Irlanda del Nord. “Se  qualche anno fa  certa gente ti vedeva con un simbolo così  in giro non te la passavi bene.  Ma oggi è tutto cambiato, per fortuna. Non c’è  più alcun problema”. Ho sorriso anche io, questa volta sonoramente, e abbiamo cambiato discorso.

L’episodio mi sarebbe passato di mente, non avessi letto le notizie di oggi provenienti dal Nord Irlanda.

La tv della paura

Lo confesso, avevo accolto con un certo piacere la notizia che nell’appartamento c’era la tv con annesso dvd player. Ero stanco di vedere i film sul computer. Certo, in questo ultimo anno e mezzo ho avuto conferma che della tv si può fare felicemente a meno, pur cosciente che in un paese nuovo la tv può essere un (problematico) bignami delle abitudini locali. E poi, se avessi avuto la tv durante gli europei di calcio avrei risparmiato in birre e rumori di folla; ogni volta ache c’era una partita che mi interessava dovevo uscire di casa e cercare un posto negli affollati bar di Berlino. Capitava di fare delle esperienze socio-culturali speciali – per esempio le partite della Turchia viste in un bar del quartiere più ‘turco’ della città è stato qualcosa che difficilmente dimenticherò – ma non sempre era così.

Da persona curiosa avevo accolto con simpatia la presenza della tv soprattutto perché oltre ai due o tre canali pubblici irlandesi c’era la possibilità di vedere la BBC. Wow, la BBC. E poi Sky (Buuu) e Discovery Channel (Mah) e altri ancora. Insomma, mi dicevo, adesso potrei anche trascorrere del tempo a rincoglionirmi di immagini televisive. In fondo, dopo la barbarie catodica italica confidavo nello ‘stile anglosassone’.

Mai speranza fu così mal riposta. Ok, la cattolica morale irlandese e la politically correctness Britannica (o quello che è) limitano la presenza di culi e tette, quindi per ascoltare una notizia agricola non devi chiederti cosa c’entra la gonna corta e la scollatura della presentatrice. Quello no. Ma i programmi sono tremendi. Noia pura. O fastidio distillato. L’apice – drammatico, va subito detto – l’ho toccato collocandomi su Sky. Su questo canale viene proposto un programma che avrei preferito non sapere esistesse. Si chiama Uk Border Force. Spero che pochi ne abbiano sentito parlare, perché vorrebbe dire che il danno che produce è ancora limitato. Si tratta di un reality sulla polizia delle frontiere (in senso lato, in pratica è quella che in Svizzera si chiama Polizia dello straniero, Fremdenpolizei). Già questo suona male. In pratica, i poliziotti filmano quello che fanno agli immigrati: inquisire, perquisire, intimidire. I ‘soggetti’ destinatari della loro attenzione hanno in comune il fatto di avere la pelle scura, di sembrare arabi o essere neri. Non importa la loro nazionalità o provenienza, basta che incarnino agli occhi della forza pubblica il moderno nemico globale dell’occidente.

Di solito viene documentato il lavoro negli aeroporti ma nella puntata che mi è capitato di vedere i ‘poliziattori’ visitavano una ditta dove viene confezionata carne. Non è un macello, le carni arrivano già morte e, come in una catena di montaggio, gli operai le sezionano e imbustano. C’erano circa venti persone al lavoro, tutti apparentemente stranieri. La telecamera filma i visi impauriti degli operai. I poliziotti li fanno allineare addossati al muro e chiedono – ben attenti a non coprire l’inquadratura – da che paese vengono. Una voce spiega che l’obiettivo della visita è individuare possibili immigrati irregolari . A parte l’ovvia considerazione che se anche ci fossero immigrati irregolari dovrebbero interrogare e mettere alla gogna il padrone della ditta e non le vittime.. a parte questo, uno si chiede se la ‘privacy’ esiste e per chi, eventualmente. Vabbè. La stessa voce diventa una faccia, quella del ‘conduttore’ della simpatica visita. E’ un poliziotto dalla testa tonda e pingue che mentre sullo sfondo i suoi colleghi continuano e interrogare spiega che ci sono varie tecniche per carpire le cose. Lui adotta quella del ‘buon amico’. Ci mostra come si fa. Avvicina sorridente un paio di operai, apparentemente arabi, e si mette a conversare del più e del meno, facendosi passare per quello ‘buono’, il poliziotto umano che capisce il disagio che le persone stanno passando. E’ solo una tecnica, non è veramente buono, ce l’ha detto lui stesso, ma gli operai non lo sanno. Poi ci illustra gli esiti della visita: nessun immigrato irregolare occupato in questa ditta. Grazie. Grazie al c., verrebbe da dire con un francesismo! Però lo spettatore (bianco, convintamente britannico e probabilmente votante Laburista) viene rassicurato che sì, la polizia ci protegge dai ‘pericoli dell’immigrazione’ e che gli immigrati sono ben sorvegliati.

P.S. Pare che la serie tv sia stata finanziata dal governo britannico con una spesa di 400.000 sterline. Visto che le cose brutte non vengono mai sole, il reality di Sky ha un precedente: la serie Border Patrol, prodotta dalla tv neozelandese.